RACHIDA EL AZZOUZI

Come ogni israeliano nato, cresciuto ed educato in Israele, lo storico Ilan Pappé ha creduto a lungo nei “miti nazionali” di Israele, soprattutto quello della Palestina come “terra senza popolo per un popolo senza terra”. Poi, un po’ alla volta, Ilan Pappé, che ha fatto una parte dei suoi studi universitari all’estero, ha aperto gli occhi su quella che lui stesso chiama “pulizia etnica della Palestina”, perpetrata da Israele. L’espressione da lui coniata ha dato il titolo a uno dei suoi saggi più importanti, che era stato pubblicato in Francia nel 2008 dalla casa editrice Fayard ed è ripubblicato ora dall’editore La Fabrique. “Mi ci sono voluti vent’anni per esprimere con parole giuste la realtà della guerra del 1948-1949”, ha confidato di recente a Mediapart.

Ilan Pappé, nei suoi testi parla di ‘pulizia etnica’ e di ‘genocidio progressivo’. Ma il termine ‘genocidio’ oggi solleva aspre polemiche se usato rispetto alla guerra in corso a Gaza…

Uso il termine ‘pulizia etnica’ per descrivere ciò che accade nei territori palestinesi dal 1948 e che per decenni è stato ignorato: ovvero l’espulsione forzata di un’intera popolazione con l’intenzione, non di eliminarla, ma di sbarazzarsene. Tra il 1947 e il 1949, più di 400 villaggi palestinesi sono stati deliberatamente distrutti, quasi un milione di palestinesi sono stati cacciati dalle loro terre dagli israeliani dietro minacce e dei civili sono stati massacrati. I palestinesi parlano di Nakba, la grande catastrofe. Nel 2007, quando Hamas è stato eletto, due anni dopo il ritiro dei coloni dalla Striscia di Gaza, Israele ha punito la popolazione imponendo un blocco terrestre, navale e aereo, causando indirettamente la morte, privando cioè i palestinesi di beni di prima necessità, come cibo e medicine. È questo che io chiamo ‘genocidio progressivo’. Come la delegazione sudafricana che ha portato il caso davanti alla Corte internazionale di giustizia, credo che oggi, dal 7 ottobre, sia in corso un genocidio: l’intenzione è di eliminare una popolazione e la sua capacità di sopravvivenza. Il presidente israeliano, Isaac Herzog, ha detto: ‘Nessuno è innocente a Gaza’. Cioè, tutti sono un obiettivo legittimo.

Quando ha preso coscienza della realtà della guerra del 1948- 1949?

Probabilmente nel 1982, con la prima guerra in Libano, quando lavoravo alla mia tesi di dottorato sul 1948, a Oxford. Ho avuto accesso agli archivi e a documenti e prove che contraddicevano tutto ciò che avevo imparato a scuola e all’università in Israele. Ma c’è voluto del tempo prima che mi sentissi abbastanza sicuro per poter parlare apertamente di ‘pulizia etnica’. Ho usato questo termine per la prima volta solo nel 2006. Poco dopo ho lasciato il mio Paese perché ricevevo minacce di morte, in Israele molti mi considerano un traditore.

Come spiega il fatto che le sue tesi siano così difficili da ascoltare in Israele?

È molto difficile per gli israeliani sentirsi dire che i ‘miti nazionali’, tutto ciò che è stato detto loro quando erano bambini, a scuola, nell’esercito e nei media, non è vero, che la Palestina, nel 1948, non era ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’. Ho insegnato per anni in Israele, prima di essere espulso dall’università nel 2007. Penso di essere stato cacciato proprio perché rappresentavo un pericolo: le persone cominciavano a essere disposte ad ascoltarmi. Sarebbe molto difficile per gli israeliani accettare che la guerra del 1948, che loro chiamano ‘guerra d’indipendenza’, sia anche un crimine, e che a Gaza non si si tratta solo di guerra per l’autodifesa, ma anche di genocidio.

La società israeliana appare frammentata, ma la grande maggioranza delle persone sostiene la guerra a Gaza….

Penso che stiamo assistendo quasi a una guerra civile. Non come quella del 1975 in Libano, ma una guerra civile ‘fredda’. Due blocchi si oppongono: la società ebraica israeliana liberale e più laica, che chiamo Stato di Israele, e il blocco di tradizione religiosa, che chiamo Stato di Giudea, e che comprende in particolare i coloni della Cisgiordania. Questa opposizione è seria e credo che possa annientare Israele. Spero di sbagliarmi, ma ho la sensazione che sarà il campo più fanatico ed estremo a vincere. Tre mesi dopo l’inizio della guerra, la popolarità di Benjamin Netanyahu era molto bassa. Ora è in ascesa costante nei sondaggi. È possibile che, con l’attuale primo ministro o con qualcuno come lui, Israele diventi uno Stato più teocratico, più razzista, più sionista e meno attento al diritto internazionale, contando anche sull’arrivo al potere dell’estrema destra francese, europea e statunitense.

Ci sono ancora speranze secondo lei, malgrado lo scenario così cupo?

Sì, la speranza della creazione di un unico Stato democratico. Non è un sogno. Ci sto lavorando nell’ambito della One Democratic State Compaign (Odsc), che riunisce palestinesi e israeliani e riceve sempre più sostegno. La soluzione a due Stati non funziona, non è mai stata una buona idea. È stata un’idea dell’Occidente israeliano, non dei palestinesi: ‘Forse se date ai palestinesi il 20% della Palestina e la dividete in due piccole regioni, Gaza e Cisgiordania, si diceva, saranno contenti’. La soluzione a un solo Stato non significa la scomparsa di Israele come Stato, cosa che non desidero, ma come Stato di apartheid. La soluzione a due Stati non rispetta il principio di uguaglianza, non offre una soluzione per i rifugiati palestinesi e non corregge le ingiustizie commesse in passato contro la Palestina, come l’appropriazione della terra e l’espropriazione. Abbiamo bisogno di un sistema democratico, in cui tutti siano uguali tra il Giordano e il Mediterraneo.

Cosa dice a chi si oppone alla soluzione a uno Stato sollevando la questione demografica?

Che musulmani, cristiani ed ebrei vivevano insieme prima del ‘48, e ancora meglio prima dell’arrivo del sionismo in luoghi come Nord Africa o Iraq.

Il 13 maggio 2023 è stato fermato all’aeroporto di Detroit, negli Usa, e interrogato per due ore dall’FBI sul conflitto israelo-palestinese. Le hanno anche confiscato il cellulare. Cosa prova ripensando a questa violazione della sua libertà?

È stato molto spiacevole e anche molto strano star seduto davanti ai due agenti federali degli Usa che mi chiedevano che cosa penso dei fatti del 1948… Ho risposto: ‘Venite alle mie lezioni, leggete i miei libri. Non vi farò nessuna lezione gratis’. Penso che si trattasse di un’intimidazione. Cercano di convincermi a non tornare più negli Usa, ma continuerò ad andarci, è importante parlare con gli Usa, dove i sostenitori del sionismo sono molto potenti politicamente. Se non dici su Israele quello che vogliono sentirti dire, sei nemico dello Stato e non sei più al sicuro.

L’estrema destra è alle porte del potere in Francia. Che pensa dell’antisemitismo ancora presente in Francia e il modo in cui viene strumentalizzato?

Israele ha fatto dell’antisemitismo un’arma, non per proteggere gli ebrei, ma per far tacere le persone. L’antisemitismo in Francia c’è sempre stato. Va denunciato e combattuto, come tutte le forme di razzismo. Uno dei maggiori errori delle campagne contro l’antisemitismo è di fare la distinzione tra razzismo e antisemitismo, come se fossero due cose diverse. Il razzismo verso gli ebrei è forse peggiore del razzismo contro i musulmani?

L’editore Fayard ha ritirato il suo libro ‘La pulizia etnica della Palestina’, pubblicato nel 2008, proprio quando l’imprenditore Vincent Bolloré, vicino all’estrema destra, ha acquisito il gruppo editoriale Hachette, di cui Fayard fa parte. Il suo libro viene ora ripubblicato da La Fabrique. Si sente rassicurato?

Sono rimasto sorpreso perché, all’epoca, l’editore Fayard si era mostrato felicissimo di pubblicarlo. Ma oggi devo ringraziare Bolloré. Il suo flagrante attacco alla libertà d’espressione ha reso il mio libro più popolare. E sono molto felice che La Fabrique, con cui avevo già pubblicato in precedenza ‘I demoni della Nakba’, stia ripubblicando ‘La pulizia etnica della Palestina’.

Da Il Fatto Quotidiano del 1° luglio 2024 / Traduzione di Luana De Micco

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