Reportage da Mazar-e-Sharif. Giornalisti perseguitati o riconvertiti, miliziani curiosi, attiviste che sfidano la repressione. In Afghanistan i Talebani hanno vinto. Ma il loro potere è fragile.
di Giuliano Battiston
«Gli italiani a Bala Murghab? Non era il posto loro quello». Noorani Sahib è a capo del dipartimento media per tutto l’Afghanistan del nord: «Comprende le province di Balkh, Jowzyan, Samangan, Sar-e-Pul, Faryab, Badghis». Il suo ufficio è in un’area centrale di Mazar-e-Sharif, capoluogo di Balkh. Hub regionale, snodo di commerci, energia, passaggi, dentro e fuori l’Afghanistan. A meno di due ore c’è il confine con l’Uzbekistan, Hairatan e il “ponte dell’amicizia”. Se si punta a ovest, si arriva al confine con il Turkmenistan.
L’edificio a un piano è presidiato da 3 militanti. Vestiti dai colori accesi, jilet/wasqat militare, kalashnikov. Uno ha i capelli lunghi. Noorani non avrà neanche trent’anni, la barba lo rende più vecchio. Nel governo ombra dei Talebani faceva lo stesso mestiere. Ora accoglie gli ospiti in un salottino, su una comoda poltrona, alle spalle una libreria a scacchi. Accanto a lui un vecchio stravaccato. Fuori c’è chi smista le visite. Due porte più in là, la sede dell’agenzia stampa governativa Bakhtar.
«SIAMO 4 GIORNALISTI QUI», dice il direttore Fareed Faizal. Fino al 15 agosto raccontavano le imprese della Repubblica islamica, del governo Ghani. Poi, quelle dell’Emirato islamico. Hanno mantenuto il posto. «Le notizie di oggi? I successi dell’Emirato», risponde il giornalista più anziano. Quali? Silenzio imbarazzato. «Amnyat». La sicurezza.
«Una volta che prendi il permesso a Kabul puoi girare come vuoi. L’Afghanistan è sicuro ora», rivendica Noorani, che viene da Bala Murghab, nel Badghis. Per anni i soldati italiani hanno provato a conquistare il distretto. Inutilmente. Alcuni italiani sono morti. La guerra con gli stranieri è cosa vecchia per Noorani. La vittoria dei Talebani era inevitabile. «Non è posto per soldati stranieri l’Afghanistan».
I Talebani hanno vinto. Ma il potere di Noorani è fragile. I rapporti centro-periferia non sono ancora rodati. La struttura di controllo dei Talebani è territoriale. Soldati semplici e funzionari sono del nord/nord-ovest del Paese. Ma l’impressione è che i capi locali temano guai con la leadership centrale. In più, la macchina statuale va avanti, con molta fatica, solo grazie ai funzionari del vecchio governo. «Un giorno è venuto un mawlawi, un religioso. Ha visto di che tipo di lavoro si trattava e mi ha detto di rimanere», confida un funzionario civile di alto livello di un altro dipartimento. La transizione è delicata. Qualche funzionario è rimasto perché senza scelta. Senza vie d’uscita né buone connessioni con gli stranieri. «Non so cosa possa accadermi domani». Lui ha inviato email su email, senza ricevere risposte.
«DEMOCRAZIA, DEMOCRAZIA, democrazia. Poi ci hanno lasciato qui. Trentacinque milioni di persone abbandonate». Uomo dalla stazza imponente, “Mohammed” (nome di fantasia) è stato arrestato. Sette giorni in carcere. Una petizione di famigliari e residenti l’ha fatto uscire di prigione. I Talebani lo hanno scambiato – dice lui – per un soldato. Cosa farà non lo sa di preciso. «Bisogna ricominciare da zero. È venuto giù non il governo, ma tutto il sistema, la tanzim», dice. Per lui e per i suoi amici l’arrivo al potere dei Talebani è «un piano dei pashtun per monopolizzare il potere. Per escludere uzbechi, tagichi, tutti gli altri. Chi l’ha voluto? I Talebani, Ghani, il Pakistan, gli americani!».
«Siamo depressi», sostiene Maroof Torabi. Baffetti lunghi su barba, laureato in scienze politiche all’università privata Aria poco prima che i Talebani prendessero il potere, voleva fare il diplomatico. «Ora? Non so. Non vedo futuro». Ai problemi economici, dice, si sommano quelli psicologici. «Non è un Paese facile il nostro».
PER “ABDULLAH” (altro nome di fantasia), Mazar-e-Sharif è un rifugio. Lavorava a Kabul per il ministero degli Affari pubblici. Il suo dipartimento riceveva fondi stranieri. Quando i Talebani hanno cominciato a chiedere informazioni sui vecchi impiegati è scappato qui. «Se mi assicurano che non mi succede nulla, torno». Per altri pare impossibile.
Wahid Sadat è un giornalista di Atv, la televisione del maresciallo e poi generale Abdul Rashid Dostum, simbolo della resistenza ai Talebani, uscito sconfitto ma salvo dall’ultima offensiva che li ha condotti al potere. «I Talebani mi hanno preso in un distretto di Balkh, portato in prigione qui a Mazar, per due giorni. Mi hanno picchiato duro». Rilasciato, è fuggito a Kabul. È rientrato da quatto giorni in città. «Cambio casa ogni notte, mi faccio vedere poco in giro». Lo sanno che è qui. «Ricevo minacce su Whatsapp». La sua colpa? «Lavoravo per Sada-e-Azadi, l’emittente dei militari». Una piccola parte del sistema di informazione e comunicazione finanziato da Isaf/Nato.
LA PROPAGANDA DEI TALEBANI passa per la presenza nelle strade, qui limitata perlopiù all’area centrale intorno alla cosiddetta “moschea blu”, simbolo della città. E per una campagna di merchandising. Le bandierine bianche con scritta nera stanno perfino sui carrelli dei venditori di pannocchie.
Su uno dei lati della moschea, in uno spartitraffico centrale c’è un negozio ufficiale. Vende oggettistica. Bandiere, adesivi, penne, t-shirt, cappelli militari, tazze da tè con i volti di mullah Omar, fondatore del movimento, o di Haibatullah Akhdundzada, l’attuale Amir ul-muminin, il capo dei fedeli. Due giorni fa la notizia: ha tenuto un incontro pubblico in una madrasa di Kandahar. Ma immagini non ce ne sono. Rimane il tentativo di smentire le voci della sua morte.
Al ristorante dell’alberghetto popolare Nazargah, di fronte alla moschea, un giovane talebano entra tenendo per mano due bimbi dai vestiti colorati. Li spinge oltre una tenda, spazio per donne e famiglie.
Lui si sistema sul piano rialzato del salone. Posa il kalashnikov. Si fa portare il tappetino della preghiera. Sbaglia direzione. Corretta, recita le preghiere. Rimane a osservare l’ospite straniero. Ci raggiunge al tavolo. Al polso un orologio massiccio, un grande anello sulla mano destra. Tira fuori il cellulare. Digita qualcosa. «Vengo da Samangan e sono un soldato talebano. E tu?». Google translate.
«Se fosse per me, non starebbero al potere e neanche in Afghanistan». Farkoonda Moradi è una ragazza esile di 22 anni. Un vestito giallo e nero, come lo scialle intorno al viso, finto Christian Dior. Viene all’appuntamento accompagnata dalla madre. «Studiavo letteratura dari in un’università privata. Lavoravo nell’ufficio del dipartimento per gli affari tribali e della frontiera, qui a Mazar. Curavo una rivista mensile in tre lingue». Ora non lavora più. Non studia più. «I colleghi hanno provato ad andare in ufficio, ma gli hanno detto che non li conoscevano. Vogliamo chiedere di tornare a lavorare due giorni a settimana». Con i Talebani è difficile. «Chiedo che ci lascino lavorare. Vogliamo scegliere come vestirci, cosa fare, cosa studiare. Prima non era facile, ma eravamo più libere».
POCHI GIORNI FA IN CITTÀ c’è stata una protesta pubblica di attiviste. Repressa dai Talebani. Quante e quanti siano finiti in carcere non è chiaro. Ieri però una quindicina di ragazze hanno organizzato una protesta in casa. Volto coperto dalla mascherina, messaggi chiari: «Vogliamo tornare a partecipare». La sera, le strade centrali intorno alla moschea blu si fanno deserte. Pochi camion, qualche taxi. Tre membri delle forze speciali talebane presidiano gli incroci.