A due anni dalla scomparsa di Raffaele Masto, il 28 marzo 2020, la redazione di Anbamed vuole ricordarlo con un suo scritto pubblicato sulla rivista “Africa”. Il grande giornalista e scrittore, colonna storica di RP e della rivista Africa, era considerato tra i più apprezzati africanisti. Come ha scritto Marco Trovato, direttore di Africarivista: “Raffaele è stato tra i più acuti osservatori e lucidi narratori del continente africano. Per oltre trent’anni ha seguito da vicino guerre, crisi umanitarie, rivoluzioni, svolte democratiche… i maggiori eventi della storia contemporanea”. “Raffaele Masto – ha scritto Massimo Bacchetta di RP – era un conoscitore straordinario di cose di Africa. Un giornalista e un viaggiatore vero, di quelli che vanno a vedere direttamente e poi riferiscono, senza farla troppo grossa ma con la capacità di avvolgerti nella storia che raccontano”. La vicinanza della nostra redazione a Gisele. |
Un inno alla vita
di Raffaele Masto
Una città ancora viva, nonostante l’orrore e la distruzione. Così appariva Kigali, durante il drammatico genocidio in Ruanda del 1994. Le strade, i quartieri, le chiese erano ancora pieni di cadaveri, ma una luce proveniente da una collina ha acceso una speranza negli occhi di Raffaele Masto, come ricorda in questa testimonianza vent’anni dopo.
Un ricordo che affiora spesso nella mia mente viene dal Ruanda. A distanza di oltre vent’anni quell’esperienza agita ancora i miei pensieri e, di volta in volta, ne emergono frammenti.
Nel disastro che era Kigali avevo trovato una casa abbandonata su una collina che dominava il centro della città. Assieme ad alcuni colleghi ne avevo fatto il mio campo base. Era una villa con giardino in un quartiere residenziale. I proprietari, probabilmente membri dell’establishment hutu, erano fuggiti per paura delle vendette dei tutsi.
Nelle notti quasi insonni che passavo in quella villa mi era capitato spesso di pensare alla vita che vi si svolgeva prima. I proprietari erano ricchi, nei quartieri popolari la gente si sognava una casa così. C’era anche la piscina, vuota naturalmente, e diversi congelatori nelle cantine, ancora pieni di cibo. E poi gli alloggi per la servitù, vicino all’entrata del giardino con l’erbetta tagliata rasa.
Da quella posizione la sera potevo vedere la città. Non c’era la luce e buona parte degli abitanti erano fuggiti, ma Kigali viveva. Strade, quartieri, chiese erano ancora pieni di cadaveri. Erano talmente tanti che la popolazione faceva fatica a seppellirli tutti. Era un lavoro che avrebbe richiesto giorni, ed era straziante, perché chi aveva perso dei familiari cercava di trovarli, almeno tra i cadaveri.
Mi ritrovavo molte sere a guardare la città buia sotto di me dalla quale si levavano colonne di fumo e, qua e là, baluginavano fioche luci di fuochi accesi. Immaginai che fossero fuochi fatui perché quella conca sulla quale era cresciuta Kigali era come un immenso cimitero a cielo aperto.
Quelle visioni notturne, durante la giornata, mi facevano immaginare di camminare sui cadaveri. Eppure da quelle visioni notturne mi arrivò anche speranza: una sera notai sulla collina di fronte una luce blu elettrica che lampeggiava e cambiava sfumature di colore. Cos’era? La rividi anche la sera successiva e poi quella dopo ancora. La segnalai ai miei colleghi e, incuriositi, un giorno andammo a vedere… Era una discoteca! In quel cimitero a cielo aperto? Incredibile!
Si trattava di una pista da ballo improvvisata: un impianto voce raffazzonato, un frigorifero, le luci psichedeliche e un generatore. Non considerai quella discoteca un oltraggio ai morti. No, niente affatto. La considerai un inno alla vita.
L’Africa, anche di fronte al genocidio, all’olocausto, alla negazione della vita, sceglieva di vivere. Sceglieva la speranza che l’uomo potesse, un giorno, fare qualcosa di buono.
Foto di apertura: Yasuhoshi Chiba/AFP