Introduzione
Paesaggi Interculturali nella Terra di Mezzo
Esperienze per una società plurale
A cura di Adel Jabbara, Giusy Diquattro e Gianluca Gabrielli
Prefazione di Marco Aime
Kanaga Edizioni, Arcore (MB), 2022
Anni di dibattiti, riflessioni, progetti hanno a volte relegato questa parola in vacui propositi di dialogo con l’Altro, escludendo di fatto la vita reale delle singole persone che la incarnano. La sua complessità di mondi e vissuti volentieri è stata usata a servizio di un pensiero dominante, in cui raramente è stata data la parola ai diretti interessati. Pertanto “intercultura” è diventata spesso una parola di moda, ambigua, di dialogo a buon mercato, levigata negli spigoli, necessari malgrado, per continuare a porre domande scomode.
Ngũgĩ Wa Thiong’o, scrittore keniota, nel suo libro Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, ci descrive l’incontro tra culture partendo dalla propria esperienza. In uno dei capitoli presenti nel volume racconta di come ha dovuto sostituire la lingua nativa, il kikuyu, con l’inglese. Per apprendere questa lingua ha prima imparato la posizione geografica dei diversi luoghi dell’Inghilterra, quando non conosceva nemmeno i luoghi del Kenya. Inoltre ogni mattina, quando andava a scuola, dopo aver passato l’ispezione d’igiene personale davanti alla bandiera del Regno Unito, l’intera scuola entrava in cappella per cantare, in inglese, “luce benigna guidami, portami fuori dal buio che mi circonda…”. La propria lingua, la propria cultura, appariva come il buio dal quale dover uscire per poter abbracciare una lingua e una cultura “illuminata”. Le diverse culture quando s’incontrano entrano spesso in una relazione asimmetrica: esistono culture espressione di paesi dominanti che esercitano una schiacciante influenza sul resto del mondo, in particolare sulle aree rese fragili da lunghi secoli di dominio.
Riflettendo sull’avvicinarsi dei modelli culturali, pertanto, è opportuno considerare i rapporti di forza che entrano in gioco. Quando si parla d’intercultura spesso si trascura un fatto, o meglio, si privilegia il dilungarsi sulla questione delle differenze e si dimentica un altro aspetto che è molto importante, determinante, ossia che di fronte a noi ci sono delle persone nella condizione di immigrati. Una condizione che ne richiama un’altra, quella della disuguaglianza sociale. La differenza culturale non può sostituire e coprire, come a volte accade, le disuguaglianze sociali che caratterizzano il vissuto degli immigrati. Per cui gli interventi interculturali per essere tali devono poter incidere anche sulla dimensione sociale vissuta dagli stranieri. In questo modo si valorizza anche la cultura così come si valorizzano le soggettività delle persone provenienti da diversi contesti. L’intercultura non può essere imprigionata dentro un’astratta concezione differenzialista, che sfocia di frequente in una retorica vacua, senza toccare i temi reali, socialmente concreti che stimolano il ragionamento e il rinnovamento nel campo della cittadinanza e della democrazia.
Sulla scia di queste considerazioni si è fatta strada l’esigenza di togliere opacità a un neologismo in ostaggio di kit formativi preconfezionati per operatori del settore e di restituirlo alle riflessioni critiche di coloro che ormai da decenni hanno acquisito esperienze significative nel campo dell’immigrazione, educazione e della mediazione culturale. L’idea di una pubblicazione sull’intercultura è maturata nel tempo, frutto di incontri che si sono susseguiti negli ultimi tre anni, in cui alcune mediatrici, insegnanti, studenti universitari e studiosi hanno partecipato in maniera appassionata a una riflessione sulla condizione della mediazione culturale in Italia, sul senso della parola “intercultura” e sui bisogni e le opportunità che ha oggi uno straniero. Il dibattito si è arricchito, durante la pandemia, anche di eventi online in cui alcuni scrittori e scrittrici della migrazione hanno condiviso e suscitato nuove domande; eventi e incontri in cui si è avvertito un certo disagio per i tempi dalle tinte esasperate che stiamo vivendo, in cui le idee sono polarizzate senza dialettica in “a favore” e “contrario”, le diseguaglianze sociali si accentuano e crescono le tendenze xenofobe, identitarie, le chiusure comunitariste e suprematiste.
I contributi di questo libro appartengono a ricche e interessanti sperimentazioni condotte da svariati protagonisti, sia per età, provenienza, professionalità e sensibilità; riflessioni che si attestano su una zona di confine per esplorarne entrambe le parti e costruire uno “spazio terzo” affinché venga condiviso un obiettivo e un progetto; è uno stare nel mezzo per ascoltare, per fare un passo che ci ponga nel cuoredelle cose. L’intercultura ci interpella in una “terra di mezzo” per dare significato a realtà molteplici che le culture e le civiltà esprimono e far sì che interagiscano; la “terra di mezzo” ci attrae per una possibilità di prospettiva, di visione ancora da venire, per un esercizio di immaginazione sulle vite degli altri, che diversamente mai conosceremmo se arroccati sulle nostre sponde fatte di pseudo certezze. Un esercizio che riguarda anche le nostre vite, più umane e autentiche se disposte a negoziare un confine tra il “noi” e il “loro”. Quella “terra” che sembrava disabitata e contesa può diventare luogo centrale di scambio, luogo di perdita e di guadagno, l’intercultura, in conclusione, può diventare il tentativo di abitare una distanza.
La presente pubblicazione, pertanto, ha scelto di indagare su alcuni ambiti in cui questa “terra” viene maggiormente evocata e chiamata a rispondere. La suddivisione per argomenti tuttavia è indicativa e alquanto trasversale, dal momento che alcuni contributi attraversano e riguardano tematiche molteplici. L’immigrazione e le trasformazioni sociali che ne derivano, sollecitano sin dall’inizio il lettore a osservare le dinamiche socioeconomiche dalla prospettiva del margine, della bilocazione esistenziale tra memoria e progettualità a cui è esposto lo straniero. Da quell’altrove di ricordi, di affetti, di geografie politiche e linguistiche che sempre erodono le scogliere del presente dell’immigrato, Adel Jabbar rilancia una sfida sui temi del riconoscimento e della partecipazione che i paesi di arrivo dovrebbero cogliere, non solo in termini di adattamento passivo, ma anche di uguaglianza emancipante; nel racconto di Adriana Dadà la migrazione assorbe le sfumature delle storie sconosciute ai più, ricostruite con paziente lavoro d’archivio, si torna alla migrazione italiana di fine Ottocento, e in particolare all’esperienza delle donne toscane nel lavoro di balie da latte, una sorta di “specchio” per molte donne straniere impegnate oggi nel lavoro di cura. E di trasformazione sociale continua a parlarci Vojsava Tahiraj, una passeggiata tra le vie di Parma, l’Oltretorrente, le piazze storiche, una città che testimonia i passaggi di generazioni che parlano hindi, moldavo, tagalog e che già negli esercizi commerciali e nei servizi manifesta una mediazione culturale in divenire.
La sezione dedicata alla memoria dei luoghi si apre nel flusso delle vite di quattro giovani studenti stranieri a Torino, un’altalena tra passato e presente, tra i luoghi di provenienza e quelli di approdo, una riformulazione dello spazio della città secondo un’alternanza identitaria che sempre inquieta e interroga il migrante; e una Torino al femminile si scopre nelle pagine di Maria Adele Valperga Roggero e Sara Milano, spazi urbani in cui le donne immigrate conquistano avamposti di libertà, lontano da un controllo sociale e familiare, e i musei offrono un’opportunità di cittadinanza ritrovata. Ma i luoghi a volte non fanno parte soltanto della memoria individuale, appartengono alla storia collettiva di un paese le cui strade ancora oggi riportano tracce coloniali da rileggere alla luce di studi e sensibilità che nel tempo sono cambiati. È ciò che provano a fare Annalisa Frisina e Mariana Eugenia Califano che raccontano le esperienze maturate a Padova e Bologna, riletture storiche decoloniali delle città operate non solo all’interno degli archivi storici ma divenute mobilitazioni sul territorio, sforzi collettivi per risignificare nel presente i sedimenti imperiali in cui siamo immersi.
Fa seguito la sezione che riguarda i testi e contesti migratori, un excursus ragionato, nell’analisi di Lorenzo Luatti, sulle rappresentazioni, quasi sempre stereotipate, degli stranieri nei testi scolastici di storia e geografia, con ciò che ne consegue nella formazione di futuri cittadini; la scuola con le sue accademie e università ritorna nelle parole di Wissal Houbabi, una critica al “sistema istruzione” che fonda ancora quasi esclusivamente il suo baricentro sulla divulgazione di una cultura bianca, eurocentrica e occidentale; infine la scrittrice Ingy Mubiayi presenta una rassegna di voci della letteratura migrante italiana dagli anni Settanta ai giorni nostri, il cui racconto spesso si muove tra il senso di perdita di un paese che ci si lascia alle spalle e la necessità di ricostruirne uno nuovo.
D’altra parte, l’ambito dedicato agli spazi e ai tempi di apprendimento ha coinvolto la testimonianza di alcune mediatrici culturali e insegnanti, non solo a scuola, ma anche all’interno di realtà associative ben radicate nel territorio, le quali hanno sperimentato nuove pratiche educative durante la pandemia. I corsi online d’italiano per stranieri o i gruppi su Whatsapp hanno contenuto le paure e gli spaesamenti di molti migranti in una situazione di emergenza, si sono dimostrati una palestra di cittadinanza e di umanità. Una semplice frase di circostanza o buona educazione: «Come stai?», se pronunciata con attenzione ed empatia, apre canali di dialogo impensati, e questo è successo nelle esperienze di Piacenza, Bergamo e Ravenna, riferite con pregnante attualità da Rita Parenti, Elisabetta Aloisi, Francesca Bellotti, Elena Scaramelli, Simona Ciobanu ed Elena Bardi.
La questione del razzismo attraversa tutto il volume mostrando da una parte la centralità del tema e dall’altra lasciando trasparire le diverse interpretazioni sottintese nei diversi sguardi: basti osservare – piccola traccia significativa – come il termine “razza” compaia a volte con le virgolette e a volte senza. Specificamente di razzismo scrive Pap Khouma, che analizza il linguaggio in cui sono presenti – nascosti o impliciti – pregiudizi e atteggiamenti discriminatori accumulati nel tempo ma pienamente attivi nella società di oggi. Tamara Taher riflette sui meccanismi dell’islamofobia nella società contemporanea come dispositivo del discorso egemonico occidentale, privo nella rappresentazione dei musulmani di un’analisi dei contesti geopolitici ed economici, e carico di pesanti ricadute sulla giustificazione della discriminazione e della violenza anti-islamica. Gianluca Gabrielli prova invece a entrare nella scuola pesantemente eurocentrica che ereditiamo nell’Occidente e nel difficile compito di mutarne i connotati. Compito che si assume Loretta Barberi che, seguendo lo spirito della Costituzione italiana, affronta in classe diversi nodi dell’intercultura. Sempre a scuola, e più precisamente in classe, Nora Lonardi ci conduce “dentro” le relazioni che prendono corpo tra studentesse e studenti, scavando sotto la superficie di parole altrimenti generiche come “integrazione”, “immigrato” e mostrandone il funzionamento nella discussione tra i giovani.
Infine la sezione conclusiva è dedicata alla narrazione autobiografica e alla raccolta di storie, una modalità sperimentata in molti laboratori a cura di associazioni o centri interculturali, un campo visivo che si allarga dalle nostre esperienze a quelle dei figli della migrazione che con parole loro decidono di raccontarsi. E un tono autobiografico mantengono le pagine di Giusy Diquattro, che rivisita il suo percorso di lettrice e poi di raccoglitrice di storie, evidenziando le trappole cui è esposto un sapiente scrivano: paradigmi culturali, vissuti e immaginari che possono tradire le parole e le intenzioni di chi si racconta. La scrittura di sé diventa un appuntamento di consapevolezza anche per una operatrice sociale, Jahela Milani, che apre le stanze dei ricordi familiari in comunità e le fa risuonare nei corridoi delle marginalità incrociate tra lavoro e volontariato.
Precisa scelta dei curatori è stata quella di non appesantire il testo di troppe note, dal momento che si è pensato a un pubblico di fruitori eterogenei, inoltre i contributi vogliono essere più una condivisione di esperienze sul tema dell’intercultura, piuttosto che un manuale. Si è ritenuto opportuno presentare una pubblicazione agile nella consultazione che permetta a ognuna/o di potere leggere liberamente senza dovere seguire una precisa sequenza. Si è preferito, difatti, dare una forma al libro in qualche modo spontanea con l’intento di lasciare qualche margine di libertà per chi scrive e nello stesso tempo per chi legge; in questa direzione vanno anche alcune proposte bibliografiche alla fine di ogni articolo, dei consigli di lettura per essere introdotti in alcuni ambiti culturali e in luoghi di socialità e di sperimentazioni interculturali.
In conclusione, si fa notare quanto il nucleo fondamentale da cui sono scaturiti e intorno a cui si sono sviluppati buona parte dei contributi di questa pubblicazione sia centrato sulla questione migratoria e sui suoi effetti negli spazi sociali nei quali si registra la presenza dei migranti. I brevi saggi del volume hanno trattato principalmente la realtà e i cambiamenti derivati da un’immigrazione “classica” nella quale s’inquadra una estesa fascia della popolazione con background migratorio residente in Italia. Di conseguenza le autrici e gli autori del libro si sono limitati a narrare, in modo chiaro e incisivo, esperienze di lavoro sul campo sia in termini di pratica d’intervento che in termini di ricerca e sperimentazione, consapevoli delle numerose e diversificate tipologie dei movimenti migratori e delle varie articolazioni che ne derivano nei contesti territoriali.
Molte persone hanno reso possibile questo libro e a loro va il nostro ringraziamento. A questa sinfonia di voci critiche e costruttive siamo particolarmente grati. Un ringraziamento particolare va a Said Boutaga, alla sua pacata sensibilità, a Samia Makhloufi e Olga Osuchowska per la loro frizzante vivacità di proposte; ad Amal El Mraki e Cristina Calzolari per la disponibilità nell’aver reso possibile alcuni incontri, a Kassida Khairallah, per la generosità con cui ha condiviso la sua decennale esperienza di mediatrice e responsabile di progetti; a Lilya Hamadi per l’ospitalità e la convivialità che, tra racconti damasceni e pietanze tunisine, hanno favorito e consolidato le relazioni tra tutti i partecipanti di questo progetto. Infine un pensiero di gratitudine va a Marco Aime per aver saputo cogliere nella prefazione i molteplici paesaggi di queste pagine e il loro carattere corale.