Editoriale
La pace impossibile in Sudan
Una settimana è trascorsa da quando sono cominciati gli scontri tra l’esercito sudanese guidato dal generale golpista Burhan e le forze di pronto intervento guidate dal generale Danglo detto Hamidati. Una guerra guerreggiata nella quale sono stati usati l’aeronautica, i carri armati e l’artiglieria pesante in mezzo alle abitazioni. Secondo il comitato dei medici sudanesi e l’OMS, ci sono stati finora tra i 300 e 430 civili morti e almeno 2400 feriti. Non rientrano nel numero dei morti quelli militari, perché nessuna delle due parti ha dichiarato le proprie perdite.
Vittima dei combattimenti sono stati i civili rimasti intrappolati nelle proprie case tra i due belligeranti, senza acqua, cibo e elettricità. Cadaveri per le strade e nessuna prospettiva di una via d’uscita.
I due generali si accusano a vicenda, parlando a nome del popolo, ma sono loro i nemici del popolo. Tutt’e due erano figli del regime dittatoriale di Omar Bashir. Si sono alleati sotto la direzione del dittatore, si sono alleati nel rovesciarlo nell’aprile 2019, dopo la rivolta popolare pacifica soffocata dal sangue proprio dall’esercito e dalle forze di proto intervento. E poi hanno tramato in combutta contro il governo civile nell’ottobre 2020, per non cedere il potere e gli interessi economici enormi che gestiscono i militari e le milizie. Pochi giorni prima della consegna del potere ad un governo civile, il 15 aprile i due generali golpisti hanno rovesciato il tavolo della democrazia e hanno cominciato a spararsi addosso perché non hanno trovato l’accordo su come spartire la torta.
Burhan si nasconde dietro la necessità che ci sia un solo esercito e Hamidati vuole mantenere i propri privilegi per almeno altri 10 anni di transizione, come due galli nel pollaio. Fa senso ascoltare i discorsi di questi due golpisti quando parlano di democrazia e di interessi supremi del popolo. Sono due macellai da deferire al tribunale del popolo. Va ricordato che Hamidati è stato il capo dei Janjaweed, i “cavalieri con il mitra” che hanno seminato terrore e morte nel martoriato Darfur.
La società civile sudanese non è neutrale ma non plaude a nessuno dei belligeranti. Li condanna e si batte con la politica e con l’azione non violenza, nel soccorso della popolazione e nei comitati di medici, di professionisti, dei lavoratori, e si oppone al potere militare. E non ha mancato di far sentire la propria voce, con proposte e iniziative per mettere di fronte alle loro responsabilità i due generali golpisti.
Dietro i due generali golpisti ci sono forze internazionali e regionali che manovrano nl buio. Il Sudan è importante strategicamente per il controllo del Mar Rosso e fa gola ai russi che hanno ottenuto un accordo per la costruzione di una base navale capace di ospitare sommergibili nucleari. Nel paese ci sono giacimenti di oro, petrolio e uranio e fanno gola alle potenze europee, agli USA ed alla Cina. Il Sudan ha un confine con l’Egitto di 1200 km e per chi vuole indebolire il ruolo del Cairo nella regione risulta utile destabilizzare i confini sud. Inoltre il Sudan confina con Libia e Ciad da dove passano le rotte dell’emigrazione dal Corno d’Africa verso le coste del Mediterraneo per imbarcarsi verso l’Italia.
Tutti questi elementi spiegano il doppio gioco compiuto da tutte le cancellerie che di giorno si appellano al cessate il fuoco e di notte tessono le fila in sostegno del loro cavallo di battaglia. Le diplomazie occidentali hanno allevato i due generali golpisti in questi ultimi 4 anni, dalla caduta della dittatura. In combutta con le monarchie del Golfo, in primis le due rivali Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Adesso il gioco sta sfuggendo di mano e per bloccare il deragliamento sono pronte ad intervenire. Il presidente Biden ha annunciato ieri l’altro di aver messo in allerta le truppe speciali nella base militare di Gibuti nell’eventualità di intervento mirante ad evacuare i cittadini ed i diplomatici statunitensi.
Sulla stampa di Washington e di Londra si accentua la demonizzazione della presenza russa, sia governativa nell’affare della base navale, sia dei mercenari della Wagner negli affari dei giacimenti dell’Oro. Sono fatti reali, ma amplificare la loro portata ha il sapore di uno spauracchio interessato. Si cerca di preparare la propria opinione pubblica ad un intervento militare in Sudan, come la storia delle fiale del generale Powel al Consiglio di sicurezza nel febbraio 2003 e tutta le fandonie sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hossein. È la teoria del caos creativo che è stata sperimentata, con grandi utilità ai venditori di armi a Washington, Parigi e Londra. I suoi risultati li vediamo in Iraq, Somalia, Siria e Libia.
Il partito comunista sudanese ha emesso ieri un comunicato che mette al centro della sua analisi il timore di un simile disegno. “Bisogna lavorare per la creazione di un fronte sudanese ampio che metta fine alle politiche di compromesso con i generali golpisti e di distanza con le potenze straniere, che con il pretesto di aiutare il Sudan ci stanno facendo naufragare in un bagno di sangue e indebitando il paese… No alla guerra contro il popolo sudanese, intrapresa dai due golpisti che tutti conosciamo, allievi di Al-Bashir”.
All’orizzonte non si vede un futuro di pace e benessere per il popolo sudanese. È una guerra che durerà a lungo perché le forze in campo sono ingenti e dietro di loro ci sono potenze, regionali e internazionali, che non vogliono perdere il controllo sul Medio Oriente. Non a caso l’attivismo della Casa Bianca, con la minaccia di sanzioni in Sudan e anche di intervento militare (con il pretesto di salvare i propri cittadini), arrivi dopo l’accordo tra Riad e Teheran per disinnescare la crisi diplomatica bilaterale e avviare una soluzione difficile per il conflitto in Yemen. E in seguito alla ripresa delle relazioni diplomatiche con la Siria di molti paesi arabi e musulmani, compresa la stessa Turchia che occupa il nord ovest del paese, e dopo il riavvicinamento tra Turchia e Egitto. Tutti processi che vanno avanti senza il ruolo di Washington, ma con il contributo diretto di Cina e Russia.
Le dittature sono colpevoli di innegabili nefandezze, ma chi parla di esportare la democrazia è un elefante nella stanza di cristalli ed è consapevole di ciò che sta facendo.