di Mario Gamba
Ho sempre pensato che da Massimo Gorla ci fosse molto da imparare.
Proprio perché era il meno pedagogico tra i leader di formazioni
extraparlamentari che io ho frequentato. Nel suo caso si trattava
di Avanguardia Operaia. Massimo ne rappresentava il lato più colto
perché per lui teoria e prassi trovavano un livello raro di
fusione. Intendiamoci. Massimo amava la trattazione delle
questioni generali, indubbiamente legate alla teoria e a una
visione strategica delle cose tanto quanto l’amavano leader e
militanti di quella stagione della rivolta a cui siamo costretti a
ripensare con nostalgia ma poi ritiriamo il tono nostalgico in
omaggio alla convinzione che «la lotta continua». Ben oltre la
sigla di una delle formazioni di allora, il concetto delle «fasi»
secondo il quale nei momenti in cui il movimento o i movimenti non
producono da sé importanti sollevazioni e progetti non c’è altro
da fare che aspettare una nuova «fase», magari intensificando le
letture più astratte possibili, bene: questo concetto io non lo
vedevo molto bene applicato al modo di operare, di dialogare, di
pensare, di essere con gli altri, di Massimo Gorla, mi sembrava un
tipo d’uomo che pensa che «la lotta continua», appunto. Credo che
sia una delle poche cose (ma saranno veramente poche?) che
condivideva con Toni Negri, a cui non tornava affatto convincente
il discorso sui periodi durante i quali non c’è conflitto di
classe.
Mi è difficile separare Massimo da Milano. Ricordo l’ammirazione –
estetica, umana, di storia depositata – che manifestava per il
quartiere intorno a Via Bonghi dove si era aperta la redazione del
Quotidiano dei Lavoratori (titolo di testata scelto dopo laboriose
consultazioni di base, titolo a dire il vero non amatissimo da
tutti ma alla fine adottato con piacere, almeno finché non
apparvero sulla scena persone che da lavoratori preferivano
diventare assenteisti e poi guerriglieri contro il lavoro). Non
era un quartiere propriamente operaio come quelli dell’estrema
periferia, eppure era un vero quartiere operaio. Aveva (allora,
oggi non so) una sua certa compostezza di non-povertà, di
comportamenti sobri ma non severi, aveva una cordialità non
ostentata, aveva una sua architettura senza squilli né di
brillantezza inventiva né di «fascino delle rovine». Andammo una
volta a pranzo assieme, con Massimo – una delle rare volte in cui
un militante di base, per quanto giornalista, e un leader della
segreteria nazionale si trovavano come vecchi amici, si sa che una
certa distanza, tutt’altro che aristocratica ma non si sa come
«naturale» c’era in Ao tra le diverse collocazioni nella
organizzazione gerarchica – e quella volta la prima sua battuta fu
(guardandosi attorno): «Bello qui, eh!». Altre battute tra noi non
le ricordo in quella occasione, saranno state dedicate
all’andamento del settore internazionale della redazione e
all’andamento della Commissione Internazionale che lui guidava e a
cui io partecipavo. Già, perché Massimo era in Ao il dirigente che
si occupava dei problemi e dei contatti a livello internazionale.
In questo era l’interprete più genuino di un passato trotskista
ormai dimenticato e di gran lunga arricchito di nuove culture
politiche (quella ricavata dalla Rivoluzione Culturale cinese fu
messa nella cassetta degli attrezzi suoi e di tutta Ao per un
certo tempo, più tardi – credo – fu lasciata perdere quando fu
chiaro a tutti che il lato libertario della Rc non era così
marcato come avevamo creduto in un primo momento).
Oggi, in queste ore, vorrei tanto avere un Massimo Gorla, anzi
proprio quel Massimo Gorla là, per scambiarci parole sul genocidio
in atto a Gaza. Vorrei tanto che mi convincesse che questa non è,
come temo, la soluzione finale di una lunga lotta di liberazione,
che il popolo palestinese non finirà, come temo, esiliato in
qualche «riserva» così come è stato per gli indiani d’America.
Massimo non troverebbe qualche escamotage verbale per convincermi
che non tutto è perduto, credo che farebbe ricorso a una delle sue
analisi stringenti della «situazione concreta», una di quelle
analisi che conduceva senza dottrinarismi, senza ricorso a termini
incomprensibili, ma serrate e generose.
Massimo malato, col cuore fragile, me lo ricordo fino a un certo
punto perché a me e ad altri, credo, nascondeva bene il suo guaio.
Però lo sapevo e lo sentivo nel suo occasionale, frequente,
ansimare. Questo è un lato della sua persona che me lo fa
ricordare con particolare affetto e anche con quel tipo di stima
che si riserva ai personaggi-mito, magari visti al cinema, che
sono combattivi, lucidi e minati da qualche male del corpo. A
parte questa faccenda – non secondaria perché lo ha portato alla
morte prematura – Massimo Gorla, che comunque era uno dei meno
austeri tra i dirigenti di Ao e anche per questo mi piaceva, aveva
portato Ao a scegliere come interlocutore principale tra i gruppi
della lotta di liberazione palestinese il Fdplp di cui era leader
Najef Hawatmeh. Io che scrivevo molto di Medio Oriente sul
Quotidiano, trovai che la scelta era azzeccata. Tra gli scritti,
le prese di posizione, i materiali che gli emissari del Fronte mi
facevano pervenire non trovavo ombra di nazionalismo, cioè della
deriva peggiore che potevo immaginare. Il Fdplp di allora pensava
a un Grande Paese laico in cui ebrei, palestinesi musulmani e non,
cristiani e persone di ogni altra provenienza vivessero assieme. E
si organizzassero per creare istituzioni democratiche e popolari.
Forse coltivava il sogno di «tutto il potere ai soviet». Io tra me
e me speravo che puntasse il meno possibile sulla parola «potere».
Un Grande Paese che fosse propulsore di rivoluzioni sapienti in
tutto il mondo. Per questa scelta di dialoghi e alleanza mi sono
sempre complimentato con Massimo. Non so come reagì quando io con
altri compagni della redazione ce ne andammo da Ao. Io poi presi
orientamenti molto diversi da quelli tipo manifesto classico che
avevo nel momento della scissione, veleggiai verso un’Autonomia
che fosse più anarchica possibile. Non ho mai saputo se e quanto
mi ha odiato per quella rottura. Ci incontrammo una volta a un
congresso nazionale sindacale e lui aveva l’aria di guardarmi come
uno dei compagni di sempre, uno dei compagni che manteneva lo
spirito critico e il pensare laico che in fondo erano la
prerogativa di Ao. Così ho pensato che ci volevamo ancora bene. Io
non ho mai smesso di volergliene.