Questo articolo è stato scritto, in italiano e arabo, per il sito amico PRESSENZA che sta sviluppando anche un’edizione in lingua araba. https://www.pressenza.com/it/

Sono passati 13 anni da quando le speranze di rovesciare un regime corrotto spinsero centinaia di migliaia di egiziani in piazza per protestare. Piazza Tahrir rimane il simbolo per tutti i popoli arabi di ciò che poteva essere realizzato in termini di democrazia e di creatività rivoluzionaria e purtroppo non è stato compiuto per l’avidità dei militari.

di Farid Adly

Il 25 gennaio 2011 per l’Egitto e per tutto il mondo arabo è una data significativa. Un gruppo di attivisti egiziani organizza sui social una manifestazione ispirata alle proteste tunisine iniziate pochi giorni prima. Quella data era la festa della polizia. Sembrava uno scherzo: come rovinare alle forze di sicurezza del regime il giorno di festa, imponendo loro una mobilitazione delle truppe. All’appello in piazza Tahrir si presentano 25mila persone, per lo più giovani e giovanissimi, che chiedono riforme politiche e sociali, sul modello della rivoluzione dei gelsomini, e le dimissioni del presidente Hosni Mubarak, capo di un regime corrotto che si accingeva a trasformarsi in una “repubblica monarchica” con la trasmissione ereditaria della leadership al figlio Jamal.

Sono sufficienti tre settimane di protesta nelle piazze in tutto il paese, con il noto mantra: “Irhal!” (Vattene!), per cambiare la storia del paese: l’11 febbraio Mubarak rassegna le dimissioni. Quella che inizia non è una nuova fase per l’Egitto, ma purtroppo l’inizio di una stagione ancora più repressiva: il generale Abdel Fattah al-Sisi instaura nel giro di breve tempo un regime autoritario. Il suo esercito, entrato in scena contro i Fratelli Musulmani, vincitori delle elezioni del 2012, estende la propria morsa all’intera società e non permette alcun accenno di dissenso.

Molti parlano del fallimento delle Primavere arabe. No, è il fallimento dei governi arabi nel garantire uno sviluppo armonioso dell’economia e un’uguaglianza nei diritti e doveri. La battaglia delle forze vive del popolo egiziano è ancora attiva, malgrado le soffocanti repressioni. L’Egitto vive una stagione di solo apparente stabilità: sul fronte interno la crisi economica è abnorme. La moneta locale è stata svalutata più volte, perdendo oltre la metà del suo valore nei cambi, l’inflazione galoppante ha superato il 40% su base annua e il debito estero è salito a cifre impossibili da saldare. Un terzo della popolazione vive in povertà.

I progetti faraonici voluti dal rais, per lasciare traccia nella storia del paese, sono stati abbandonati a metà per mancanza di finanziamenti. Il governo ha messo all’asta tutto quel che si poteva vendere, dal patrimonio edilizio storico alle fabbriche, dai due isolotti del Mar Rosso (all’Arabia Saudita) alle immense terre agricole nella valle del Nilo (agli Emirati). Il parlamento ha approvato una legge che permette la vendita sottobanco del Canale di Suez. Una battuta, che gira nel suk del Cairo, suona così: “A chi venderemo le Piramidi?”.

A questo devastante quadro di fallimenti economici si aggiunge la desolante repressione: nelle carceri di Al-Sisi marciscono oltre 60 mila oppositori politici, molti dei quali sono in attesa di giudizio da anni, per aver scritto un post sui social che delineava fatti veri sui fallimenti economici o sulla politica repressiva. Emblematico il caso di Alaa Abdelfattah, protagonista della rivoluzione di piazza Tahrir, in carcere da oltre 10 anni. Il regime militare ha prima messo fuori legge il partito della Fratellanza Musulmana e poi si è accanito contro l’opposizione laica e progressista. Un professore universitario si è visto comminare una condanna a 5 anni di carcere per aver scritto un libro che sosteneva, con un’analisi scientifica, l’inefficacia delle misure economiche messe in essere dal governo.

La repressione ha toccato anche innocue influencer. Haneen Hossam (1,2 milioni di follower su TikTok) e Mowada al-Adham (1,6 milioni di follower su Instagram e 3,1 milioni di follower su TikTok) sono state arrestate nel 2020 insieme ad altre tre attiviste con l’accusa di “traffico di minori” e “violazione dei valori della famiglia” per la diffusione di video in cui apparivano dei minorenni. Condannate in primo grado a due anni di carcere, poi sono state assolte in appello, dopo aver trascorso dieci mesi di reclusione.  

Malgrado che il potere egiziano calpesti ogni giorno i diritti umani, Al-Sisi gode dell’appoggio delle potenze capitalistiche di USA e UE. Si dice che questa politica, di chiudere tutt’e due gli occhi sui crimini delle forze di sicurezza egiziane, è motivata dalla necessità di garantire stabilità alla regione. La realtà è un’altra: si vuole garantire gli investimenti e soprattutto lo sfruttamento dei giacimenti di gas al largo delle coste egiziane. I governi italiani, in nome di questa realpolitik in salsa orientale, hanno dimenticato l’assassinio Regeni, surclassando la vicenda al livello giudiziario, che probabilmente approderà soltanto a delle condanne simboliche, in contumacia, dei 4 generali sotto accusa per aver torturato, ucciso e nascosto il cadavere del ricercatore italiano.

Gli ideali di quegli slogan di 13 anni fa: “pane, libertà e giustizia sociale”, sono ancora in campo. Malgrado la confisca di tutti i media indipendenti da parte di società legate ai servizi di sicurezza, in Egitto operano voci coraggiose come Mada Misr (Qui) sito online diretto da una coraggiosa giornalista, Lina Atallah, coadiuvata da una redazione quasi tutta al femminile.

Il rais ha cambiato la Costituzione e si è garantito la permanenza al vertice del potere fino al 2030, permettendo a se stesso un terzo mandato. Nelle recenti elezioni dello scorso dicembre ha vinto con “cifre egiziane” (tanto per aggiornare il noto detto “maggioranze bulgare”): 89,9% dei voti espressi. Briciole ai 3 sfidanti.

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