Riprendiamo da Africa-Express questo articolo di analisi sul rapporto del mondo ebraico con Israele. Ringraziamo il direttore Massimo Alberizzi e l’autrice Federica d’Alessio.
Già all’inizio del secolo scorso diversi israeliti avevano preconizzato che uno Stato organizzato su presupposti razziali avrebbe provocato una guerra infinita
Federica d’Alessio*
Agli inizi del Novecento, all’interno della compagine governativa in Gran Bretagna andò in scena un paradosso: mentre Londra dava il suo assenso alla nascita di uno Stato di Israele in Palestina, per il tramite della famosa “Dichiarazione di Balfour”, dal nome del ministro degli esteri che la firmò, l’unico ministro di origini ebraiche nel governo, Edwin Montagu, si opponeva fermamente alla stessa, prevedendo che avrebbe comportato un interminabile conflitto in terra di Palestina, la cacciata dei non-ebrei e “magari, per ottenere la cittadinanza sarà necessario persino un test della religione”.
Amaramente profeta, in un documento intitolato significativamente “L’antisemitismo dell’attuale governo” Montagu spiegava che l’assenso di Balfour e colleghi al progetto sionista si era accompagnato fin dal principio ad ammiccanti dichiarazioni fatte ai più noti personaggi antisemiti del Paese.
Derive scioviniste
L’allusione era chiara: liberarsi della sgradita presenza degli ebrei nei propri Paesi sarebbe stato molto più facile, con uno Stato d’Israele poco lontano.
Il progetto di Israele come Stato, pensava Montagu, da una parte nasceva in seno alle derive scioviniste frutto della Prima guerra mondiale e della dottrina nazionalista che con essa si era imposta, dall’altra solleticava anche la tentazione, da parte di chi non vedeva di buon occhio gli ebrei, di fare della Palestina “il ghetto del mondo”.
Lungi dall’essere ascoltata con maggiore attenzione, l’opinione dell’unico ebreo del gabinetto di governo fu ridicolizzata come “eccentrica”, come racconta lo stesso Montagu in una lettera al collega Lord Robert Cecil, segretario per gli Affari esteri di quel governo. Eppure, si legge in quella missiva, la stessa comunità ebraica in Gran Bretagna era lungi dall’essersi dimostrata a favore del sionismo.
Un progetto non convincente
Conducendo alcune ricerche presso gli organismi della comunità, Montagu aveva verificato che il progetto di istituzione di uno Stato-nazione degli ebrei trovava più favore fra i non ebrei (all’interno delle élite cui era richiesto un parere) di quanto non ne trovasse fra gli ebrei; esso, infatti, non convinceva una buona fetta della comunità ebraica. In particolare, a non convincere era che lo statuto di cittadinanza previsto per gli ebrei nel loro Stato fosse di rango superiore a quello dei non-ebrei.
Montagu stigmatizza in più passaggi, nel suo documento e nella sua lettera, il carattere suprematista (non lo definisce con questo termine) del sionismo: garantire più diritti agli ebrei di quanti non se ne sarebbero garantiti ai non-ebrei era un punto cardine insito nell’idea di Stato di Israele. Una pretesa inaccettabile, dal suo punto di vista.
Fin dal principio, dunque, il sionismo fu accolto con grande preoccupazione da un’ampia fetta di ebrei, sia perché vedevano un pericolo per la loro stessa comunità nel definire quella ebraica come una “razza” o come una “nazione” piuttosto che come una religione, sia perché avevano ben intuito che il progetto sionista si presentava esplicitamente come avverso alle popolazioni arabe e cristiane che in Palestina già vivevano; una avversità da cui non sarebbero scaturite che guerre e odi.
“Una gioia enorme”
“Il sogno di uno Stato ebraico con un numero ridotto di palestinesi”, scrive lo storico dell’Olocausto e cittadino israeliano-americano Alon Confino, animava il sionismo. Ben testimoniato dalle parole di un comandante della battaglia di Tiberiade del 1948 – parte di quegli scontri feroci che precedettero la dichiarazione ufficiale di fondazione dello Stato di Israele e che i palestinesi chiamano nakba, la catastrofe –, il quale dichiarava: “La gioia è stata enorme. Non potevo credere ai miei occhi. La fuga degli arabi dalla città mi sembrava un sogno. C’era un senso di euforia tra tutti [i soldati]”.
Lo stesso senso di euforia, a distanza di oltre 75 anni, lo osserviamo nei video su TikTok dei soldati israeliani che sono entrati a Gaza da ottobre 2023 a oggi; occupano le case, le distruggono, dipingono le stelle di David sui muri, affiggono la bandiera israeliana nell’ufficio del Parlamento, appiccano il fuoco alle abitazioni, sparano ai bambini, e di ognuna di queste azioni e di ancora molte altre si vantano lasciando testimonianza della fierezza, della gioia e della soddisfazione con cui si muovono. È la gioia di infliggere ai palestinesi, senza tema di dichiararlo, una nuova nakba.
Militanti ebrei contro l’occupazione
Ma anche oggi, come allora, non tutti gli ebrei condividono questa euforia. Tanti fra loro sono convinti – come lo erano Montagu all’epoca, i militanti del Bund (il partito dei lavoratori ebrei in Polonia, che diresse l’insurrezione nel ghetto di Varsavia), Primo Levi, Hannah Arendt, l’attivista Rachel Corrie uccisa da un bulldozer israeliano nel 2003, varie associazioni di ebrei contro l’occupazione, negli Stati Uniti e in molti altri Paesi del mondo, le comunità di ebrei ortodossi e anche tanti ebrei laici e ancora migliaia e migliaia di personalità e realtà collettive appartenenti al mondo ebraico – che il sionismo e le istituzioni dello Stato sionista d’Israele non abbiano alcun titolo di parlare a nome degli ebrei del mondo.
Accuse di antisemitismo
E che dunque non sia legittimo accusare di “antisemitismo”, ovvero di odio contro gli ebrei, coloro che criticano le politiche israeliane, quand’anche ritengano la nascita stessa dello Stato d’Israele una disgrazia, un atto di prevaricazione coloniale e terroristica che il diritto internazionale avrebbe dovuto impedire dall’inizio.
“Not in my name”, ripetono da decenni gli ebrei contro l’occupazione. Il sionismo, come il Bund denunciò in tempo reale durante l’occupazione nazista, non è un movimento di solidarietà fra ebrei ed ebrei; è un movimento etnonazionalista che si propone di portare avanti, secondo una logica costantemente espansionistica, un progetto di Stato “con un numero ridotto di palestinesi” destinati a vivere, secondo i piani così come candidamente li svelano i coloni stessi, in una posizione di sottomissione, senza diritti politici e senza cittadinanza; da lavoratori schiavi in buona sostanza, a disposizione dell’economia e della società israeliana.
Tutti i partiti di destra
Ecco perché, come ben vediamo oggi, possono esserci e ci sono feroci sionisti non ebrei, come per esempio i componenti delle sette cristiane evangeliche e messianiche statunitensi, capeggiati da Donald Trump. O come lo stesso Joe Biden e una ampia fetta di elettorato bianco democratico negli Stati Uniti.
O come i rappresentanti di tutti i partiti di destra e persino di destra fascista e nazista in tutta Europa, dall’Afd tedesco ai Fratelli d’Italia nostrani al partito di Marine Le Pen in Francia, passando per le grandi amicizie fra Netanyahu e Orbán, o con il PiS polacco; e possono esserci e ci sono ebrei radicalmente antisionisti, come i rabbini ortodossi o gli attivisti di Jewish Voice for Peace che dall’inizio dell’ultima rappresaglia su Gaza hanno manifestato in massa nelle principali città americane gridando “Cessate il fuoco”. “Spero che vi mandino tutti nei forni”, ha gridato loro di recente una cittadina americana sionista durante una manifestazione.
ll sionismo non appartiene agli ebrei più di quanto non appartenga ai nostalgici fascisti d’Europa.
L’accusa di antisemitismo lanciata contro chi ritiene il sionismo un progetto reazionario, razzista e pericoloso – non soltanto per il popolo palestinese che ne sta subendo da oltre un secolo le principali conseguenze, ma per il sistema democratico nel suo complesso – non è semplicemente pretestuosa, è parte integrante della politica etno-tribale che i sionisti e i loro alleati portano avanti.
Restrizioni maccartiste
Non a caso è in nome del contrasto all’antisemitismo che la libertà di espressione sta subendo restrizioni maccartiste in numerosi luoghi d’Europa, dalla Francia alla Germania; è in nome del contrasto all’antisemitismo che i rappresentanti di numerose minoranze etniche, compreso gli stessi ebrei quando si tratta di antisionisti, vengono zittiti o cancellati nelle manifestazioni culturali, licenziati dai ruoli che ricoprono all’Università, indotti al silenzio all’interno dei posti di lavoro se solo osano chiedere un cessate il fuoco.
Ed è ancora attraverso l’uso disinvolto dell’etichetta “antisemita” o “alleati di Hamas” che Israele manifesta il suo disprezzo verso ogni istituzione della democrazia internazionale che provi a denunciare la carneficina in corso nei confronti dei palestinesi o semplicemente a ribadire l’umanità delle vittime: l’ONU e i suoi alti rappresentanti, la Corte internazionale di Giustizia, l’UNRWA, Medici senza frontiere, le agenzie di cooperazione europee, qualsiasi organo che richiami al rispetto del diritto internazionale o agli obblighi di rispetto dei diritti umani è bollato come antisemita o filoterrorista dalle autorità israeliane.
Una forma d’odio
L’antisemitismo è stata una delle forme d’odio che ha prodotto le più abiette persecuzioni nel corso della Storia; consentite da una disumanizzazione totale che ha portato, nel caso del nazismo, a privare di ogni umanità la considerazione degli ebrei. Durante la Seconda guerra mondiale la carneficina verso le popolazioni ebraiche era giustificata dalla convinzione dei rappresentanti di ideologie totalitarie, quella nazista e quella fascista – costruite sull’etnicità razzista e sul suprematismo nei confronti di altre etnie – di dover creare uno spazio vitale per consentire al popolo supremo di prosperare.
Dottrina sciovinista
Il sionismo attinge a quella stessa visione, come aveva compreso chiaramente Montagu oltre un secolo fa: è figlio della dottrina sciovinista che sconfisse e schiacciò l’afflato internazionalista dopo la Prima guerra mondiale, e che vedeva nella nazione il totem attorno al quale articolare la definizione di principi e obiettivi da difendere, per i quali guerreggiare.
Il fascismo, il sionismo, il nazismo, furono in quel frangente storico interpretazioni differenti di un nazionalismo che coagulava attorno a una certa idea di popolo ideali revanscisti, pretese colonialiste e una visione superomista.
È incorretto, perciò, pensando a Israele, ritenere che le vittime di ieri si siano trasformate nei carnefici di oggi, come vuole un certo luogo comune che è risuonato molto, per esempio, durante l’ultima Giornata della memoria. I carnefici sono gli stessi, ieri come oggi: sono congreghe di suprematisti, fanatici e tribali, animati da un disprezzo per l’umanità e da una visione esaltata di sé e della propria razza. Israele sta sterminando il popolo palestinese e minando la sopravvivenza del sistema democratico; e lo sta facendo in nome di questa ideologia, non in nome degli ebrei.
Federica d’Alessio*
federica.dalessio@gmail.com
©RIPRODUZIONE RISERVATA
*Federica d’Alessio è giornalista, redattrice di MicroMega. Cura inchieste e analisi su fenomeni sociali e politici. Ha vinto il Premio Luchetta 2022-Stampa italiana per il giornalismo sui diritti dell’infanzia. Una sua inchiesta sulla filiera del grano ha vinto il Premio Parco Majella 2021.
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