Il 25 febbraio l’aviere statunitense Aaron Bushnell si dà fuoco in divisa davanti all’ambasciata israeliana di Washington. Aaron ha 25 anni, ci sono foto che lo ritraggono sorridente, paffuto, il classico ragazzone americano con tutta la vita davanti. Prima di immolarsi scrive un post su facebook: “È capitato a molti di noi di chiedersi ‘Cos’avrei fatto al tempo della schiavitù? O dell’apartheid? Cosa farei se il mio Paese commettesse un genocidio?’ La risposta è quello che stai facendo ora. Proprio ora”. Alla Corte di giustizia dell’Aja si sta dibattendo se quello che succede a Gaza in risposta ai massacri di Hamas del 7 ottobre sia o meno un genocidio. Con una sentenza provvisoria la stessa Corte ha riconosciuto la “plausibilità” del genocidio. Ci sono i morti, certo – tra accertati e dispersi al momento quasi 40mila. Ma non solo. C’è la distruzione di tutto. Ci sono le dichiarazioni dei leader politici israeliani, che fanno intendere la volontà non solo di sconfiggere ma di sterminare il nemico: ricordatevi di Amalek, ha detto il premier Netanyahu in un’allocuzione alle truppe, con implicito riferimento al passo biblico che invita a “uccidere uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini”. E poi ci sono le immagini che i soldati israeliani si scambiano freneticamente nei social: “Questa è dedicata a mia figlia, la principessa Ayala per il giorno del suo secondo compleanno” ride un soldato mentre fa saltare una casa palestinese. “Eccoli, gli unici civili innocenti” ride un altro, filmando due capre che brucano. Da sei mesi a Gaza succedono cose che non siamo abituati a vedere. Le vediamo poco, in realtà. Ma sono così gravi che, anche se la Corte dovesse decidere che questo non è un genocidio, la domanda del soldato Aaron continuerebbe a interrogarci: “Cosa facciamo noi mentre accade tutto questo?”.
Sono un giornalista, e per dodici anni ho collaborato con il Venerdì di Repubblica. Non è una rivista qualsiasi. In un panorama editoriale desolante, il Venerdì resiste, tanto da fare apparire il quotidiano quasi un allegato del settimanale: il giovedì Repubblica vende 90mila copie, il sabato pure, in mezzo quasi raddoppia, salendo a 160mila. Negli anni ho pubblicato inchieste e reportage dall’Italia, dall’Europa orientale, dai Balcani, ultimamente soprattutto dal Nordest. Il 5 gennaio esce una storia di copertina sui 700 anni dalla morte di Marco Polo: come sempre al Venerdì, riusciamo a trasformarla in una vicenda che circola nella vita di tutti i giorni. Sono soddisfazioni. Ma non contano più nulla. Sono settimane che non mi tornano i conti: cosa faccio io mentre accade tutto questo? Sono sicuro di non avere nulla a che fare con lo sterminio di questa gente che sembra completamente inerme, semplicemente in attesa di sapere se sarà viva domani? Massacri ce ne sono sempre stati, e i nostri giornali non sempre sono stati dalla parte giusta. Ma di diverso c’è questo centellinare in diretta. E la consapevolezza sempre più insopportabile che questa distruzione sia in capo ai nostri amici e alleati, in capo a reti economiche e politiche che dai nostri giornali arrivano fino alle stanze di chi può fermare o rilanciare la strage.
Di fronte a un genocidio la prima esigenza è quella di non averci nulla a che fare. Il 5 gennaio mando una lettera ai 320 colleghi di Repubblica per comunicare che interrompo la mia collaborazione con il settimanale. Mi sono convinto che siamo parte di un apparato che rende possibili le stragi: “Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”. Ho posto un problema, e una quindicina di colleghi mi risponde con messaggi di solidarietà, in parte semplicemente umana, in parte anche di imbarazzata sostanza. 15 su 320: per il 95 per cento dei giornalisti di Repubblica il problema non esiste. Ma poi il collega napoletano Paolo Mossetti divulga la lettera nei social e l’effetto è travolgente, con centinaia di migliaia di visualizzazioni, migliaia di commenti, un corale senso di liberazione perché qualcuno, da dentro, ha detto quello che in tanti, qui fuori, pensano ormai da mesi: sulle stragi di Gaza la nostra stampa non sta facendo il proprio dovere. Oscura il dolore palestinese. Non mette a fuoco le responsabilità israeliane. La mia lettera diventa il bimbo della favola di Andersen: il re è nudo, i grandi giornali sono schierati dalla parte delle bombe.
Siamo la scorta mediatica dei massacri. È questo il pensiero che mi ha assillato per settimane. Dei crimini di guerra dell’esercito americano in Iraq abbiamo preso coscienza grazie soprattutto al video Collateral Murder, che il marine Chelsea Manning recapitò a Julian Assange: entrambi hanno pagato e stanno pagando un prezzo altissimo per questo contributo di trasparenza. Dei massacri di Gaza invece sappiamo tutto, giorno per giorno. Come ha sostenuto l’avvocata irlandese Blinne Ni Ghrálaigh parlando a nome del Sud Africa nella causa alla Corte dell’Aja: “Questo è il primo genocidio della storia che vede le vittime trasmettere in diretta la propria distruzione nella disperata, e finora vana, speranza che il mondo possa intervenire”. È sicuramente un paradosso: nonostante nella Striscia di Gaza non siano ammessi giornalisti internazionali, il flusso di immagini e notizie che documentano i massacri è irrefrenabile. Le vittime ci fanno sapere tutto. I carnefici non nascondono nulla. Ma quest’abbondanza di fonti non fa che accrescere le responsabilità della libera stampa. Soprattutto della libera stampa d’Occidente. È come se i grandi organi di informazione avessero in mano l’interruttore per fermare o mitigare i massacri. E non lo stessero usando.
Accadono cose enormi. Nei primi cento giorni di guerra ucraina erano stati uccisi 260 bambini. Qui i bambini massacrati sono quasi dodicimila. Il collettivo britannico Led by Donkeys sottrae questa cifra alla statistica stendendo sulla spiaggia di Bournemouth 11.500 vestitini l’uno accanto all’altro: un unico piano sequenza riprende cinque chilometri di bambini che non ci sono più. Ovunque ti giri, è come se l’orrore di questa guerra che non è una guerra eccedesse ogni consuetudine: in cinque mesi distrutte oltre metà delle case, tutte le università, due terzi degli ospedali, ammazzati 103 giornalisti, 685 operatori sanitari, ottomila donne, una mamma ogni 40 minuti. La sproporzione tra vittime civili e combattenti impedisce di definire questa catastrofe una guerra: verrebbe da chiamarla genocidio, ma il termine è controverso. Per Joe Biden era genocidio quello di Putin in Ucraina, non questo di Netanyahu a Gaza: a dargli manforte in Italia c’è proprio Repubblica, che nell’aprile 2022 pubblicava dotti editoriali di sostegno alla tesi del genocidio ucraino, e nell’inverno 2024 pubblica altrettanto dotti editoriali che confutano la tesi del genocidio palestinese. Ma le cose devono avere un nome. Nel dubbio, c’è chi opta per “dura risposta”, chi per “intervento massiccio”, chi romanticamente per “aspra guerra”. Quando si sono già superate le 30mila vittime, un editoriale del Corriere della Sera mette in fila nella stessa pagina lo “scempio inumano di Hamas”, la “carneficina di Putin in Ucraina” e le “operazioni a Gaza di Netanyahu” (corsivi nostri, ndr). In attesa della sentenza sul “plausibile genocidio”, possiamo quindi chiamarle operazioni. Restano enormi però: l’enormità della morte e della distruzione obbliga gli organi d’informazione a fare al meglio la loro parte. Non la stanno facendo.
Migliaia di bambini sotto le macerie. Basterebbe questo per imporre un salto comunicativo: non è più il conflitto israelo-palestinese, non si tratta più della legittima difesa di Israele dopo i massacri del 7 ottobre. È qualcosa di profondamente diverso. È un evento che tasta i limiti della nostra tenuta etica, mette in allarme la nostra comune appartenenza a una civiltà che si vuole intrisa di diritti umani. Ma i grandi giornali non capiscono. Continuano a contestualizzare, razionalizzare, geopoliticizzare gli eventi. Eppure la stragrande maggioranza dei palestinesi non muore sul campo di battaglia ma in casa. In rete circolano fotografie di grandi famiglie nel giorno di festa, in cui tre o quattro generazioni sorridono all’obiettivo: dieci, quindici, diciotto persone e un’unica didascalia ricorrente che recita “Tutti uccisi dall’esercito israeliano”. Cade una bomba e sparisce una famiglia. Muoiono medici, avvocati, scienziati, scrittori, infermieri. Non si sa se muoia anche qualche combattente di Hamas. Ogni tanto i giornali si appassionano alla caccia al numero uno, due o tre dell’organizzazione terroristica. Al ritrovamento dell’ennesimo temibilissimo tunnel. Appare tutto così puerile di fronte a questa strage: quando scrivo la mia lettera di congedo, ricordo ai colleghi che quello stesso giorno lo sterminio di due famiglie è registrato dal giornale all’ultima riga di pagina 15. Due mesi e mezzo dopo, una bomba uccide 36 persone di un unico nucleo famigliare di Dair al-Balah: nell’edizione online di Repubblica lo schianto finisce nel rullo di notizie dove si nasconde tutto quanto è impossibile non pubblicare; nell’edizione cartacea non c’è. È la cronaca quasi quotidiana di questa finta guerra: il 30 gennaio l’Unicef comunica che dal 7 ottobre a Gaza sono rimasti orfani 19mila bambini. Ma l’allarme non scatta nemmeno questa volta: il giorno dopo la notizia è al piede di pagina 13 sia su Repubblica sia sul Corriere. Ma così non si documenta, così si accompagna un genocidio.
Non c’è mai un momento in cui fare il punto ed esprimere un giudizio. A differenza del 7 ottobre, queste stragi si compiono senza nessuna narrazione. Non un editoriale sui colleghi uccisi, non un commento sulla distruzione di ospedali, università, moschee, chiese. Non una riflessione sulle decine di soldati che si fanno riprendere accanto alle loro prede legate, bendate, accartocciate. Mai una rubrica, nemmeno caustica, nemmeno ironica, dedicata alle dichiarazioni deliranti di politici e commentatori israeliani: “Dai quattro anni in su, sono tutti sostenitori di Hamas” dice un ex generale, “Sono fiera delle rovine di Gaza. Che si ricordino per i prossimi ottant’anni di cosa sono capaci gli Ebrei” esulta una ministra in carica. Esaurita l’epopea dell’autodifesa di Israele, per mesi ci si concentra su fantomatici negoziati che coinvolgono cancellerie, mediatori, emissari: in mezzo a tanti movimenti apparenti, la morte diventa un basso continuo quasi impercettibile. Accadono cose. L’attenzione è minima, tranne quando non ne accadono altre: il 23 gennaio il Corriere della Sera si sveglia e titola “Giornata di sangue nella Striscia: Hamas uccide 24 soldati israeliani”. Lo stesso giorno vengono uccisi 210 palestinesi, in larghissima parte civili. Fosse stato per loro, la giornata non sarebbe stata di sangue.
I nostri organi di stampa dovevano stare dalla parte della nostra civiltà. Hanno scelto un altro campo. Quando tutto sarà compiuto cominceranno i long form dedicati alla distruzione. Ma è adesso che vengono uccisi i bambini, migliaia di bambini. La guerra in Ucraina è stata raccontata ricorrendo a tutto l’armamentario della comunicazione emozionale: grandi titoli, enormi fotonotizie, testimonianze strazianti, giudizi continui, soprattutto tanti inappellabili giudizi. I massacri di Gaza non hanno mai meritato una presa di posizione. I Tg Rai si sono specializzati nel racconto della sofferenza palestinese senza responsabili: le bombe cadono, in certe serate addirittura piovono, non si riesce mai a capire per mano di chi. Un commentatore attento come Massimo Giannini il 13 febbraio a Di martedì se ne esce con questa frase: “Non si deve avere paura di dire che a Gaza si sta producendo una strage”. Dopo quattro mesi siamo a questo punto: ci vuole coraggio perfino a contare i morti, non se ne parla di indicare i colpevoli. Più passa il tempo e più sono convinto di avere fatto la scelta giusta. Tranne poche, luminose eccezioni, il nostro sistema informativo ha fallito l’appuntamento con il genocidio. L’avrebbe fallito anche se fosse solo uno sterminio, un massacro, un’”aspra guerra”. E sì che per non fallire sarebbe bastato ascoltare un vecchio ebreo francese che i giornali italiani frequentano da decenni: a 102 anni, il sociologo Edgar Morin parla al festival del libro africano di Marrakech e si dice “indignato” da quello che, nel silenzio del mondo, i governanti d’Israele stanno compiendo a Gaza. Morin soffre per la propria impotenza ma con un filo di voce invita a reagire: “Troviamo il coraggio di guardare in faccia la realtà, e facciamo tutto quanto è nelle nostre possibilità per continuare a testimoniare”. Sarebbe bastato ascoltarlo.
Dell’autore è in uscita a fine aprile per la casa editrice People il libro Gaza. La scorta mediatica