di Clara Mattei, economista* (articolo ripreso da Il Fatto Quotidiano: QUI)
L’estrazione di valore a favore dell’economia israeliana, aiutata da leggi e forza militare, ha impoverito i palestinesi e li ha messi alla mercé del “vicino”
Nel suo magistrale libro “J’accuse” (Fuoriscena), in cui mette in luce la violenza strutturale della colonizzazione e la violazione di diritti umani perpetrata da Israele, la special rapporteur delle Nazioni Unite Francesca Albanese riproduce la giornata tipo di un lavoratore palestinese: “Alle 7.30 ti svegli, vuoi fare una doccia ma l’acqua la devi comprare da Mekorot, l’azienda idrica di Israele, che ha preso il controllo dell’80% delle risorse idriche della West Bank. Alle 8.30 sali in auto per andare al lavoro, in un percorso simbolico, come può essere quello da Betlemme a Ramallah. In Cisgiordania, l’esercito israeliano ha una rete di 97 check-point fissi e centinaia di posti di blocco ‘volanti’, che compaiono e scompaiono senza preavviso. Lunghe code, controllo documenti, spesso chiusure – collettive o verso singole persone – senza spiegazioni. Ogni lavoratore palestinese deve muoversi da casa con largo anticipo. In pausa pranzo, per comprare un panino o fare la spesa, si usa solo lo shekel israeliano, non avendo mai avuto una moneta palestinese. Magari devi fare benzina, solo da gestori israeliani, che hanno il totale controllo delle risorse energetiche. Se lavori con l’estero, qualsiasi viaggio tu voglia fare, per qualsiasi motivo, dipende dall’autorizzazione che ti sarà eventualmente concessa da Israele, che controlla tutti i punti di accesso e di uscita dalla Palestina”.
Questa immagine è emblematica di una ultra-decennale storia di oppressione economico-politica, che gli economisti critici chiamano “teoria della dipendenza”: la vicinanza geografica tra Israele e Palestina ne fa un caso da manuale. L’idea fondamentale è quella per cui lo “sviluppo” delle nazioni ricche non accade in maniera indipendente, ma deriva dall’attiva creazione di “sottosviluppo” in quelle povere. La struttura economica della periferia (Palestina) è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro (Israele). Prova ne sia il Pil di Israele: il doppio di quello palestinese nel 1967, oltre 14 volte tanto nel 2022 (in valori assoluti oggi è quasi 20 volte quello palestinese).
L’economia palestinese ha perso nel tempo un’autonoma base produttiva, sia manifatturiera che agricola. L’estrazione di valore è dunque oggi tutta a favore dello Stato di Israele, che ne beneficia in un doppio senso: riceve risorse naturali, materie prime e forza lavoro da un lato; ha a disposizione un mercato per le proprie merci dall’altro. La Palestina deve infatti importare i più costosi beni finiti, sviluppando un deficit commerciale che ne aumenta la vulnerabilità economica e monetaria: negli ultimi cinquant’anni il 75-80% di tutti i beni importati ed esportati dalla Palestina sono stati scambiati con l’economia israeliana; nel 50% dei casi l’import palestinese ha riguardato beni in passato prodotti in Palestina (abbigliamento, calzature, bibite, mobili, eccetera).
Per studiare il fenomeno della dipendenza economica palestinese, e quanto sia inscindibile da chiare decisioni politiche, dobbiamo fare un passo indietro e guardare agli anni del mandato britannico (1922-1947). La Gran Bretagna, in collaborazione con le organizzazioni sioniste del tempo (Palestine Jewish Colonization Association, The Jewish National Fund, The Palestine Land Development Company e via elencando), ebbe un ruolo cruciale nel plasmare l’economia dell’area in direzione capitalistica: facilitò la crescita dell’industria israeliana e la proletarizzazione dei palestinesi, allontanandoli dalla terra che costituiva la base della loro economia di sussistenza.
La terra acquistata dalle organizzazioni sioniste fu censita come “terra soltanto per ebrei”, non più vendibile ai non ebrei. Gli inglesi favorirono, inoltre, grandi donazioni e investimenti per le industrie ebraiche. E ancora: l’impero britannico richiese le tasse agricole in denaro, causando l’indebitamento dei contadini palestinesi e costringendoli a prendere denaro in prestito, rendendoli così più dipendenti dal mercato. D’altro canto, la Gran Bretagna assicurò fondamentali concessioni sulle risorse naturali alle compagnie ebraiche: la Rutenberg Electricity Company (1922), la Atlit Salt Company (1922) e la Palestine Potash Company (1929), società – quest’ultima – di estrazione mineraria.
La politica diseguale dei dazi giocò poi un ruolo fondamentale per creare le condizioni di dipendenza palestinesi. Gli inglesi mandatari abolirono i dazi sulle merci prodotte da ebrei e sulle importazioni di materie prime, mentre imposero alte tariffe sulle merci che potevano competere con l’industria ebraica. Il trattamento opposto fu riservato all’industria araba con l’imposizione di alte tariffe sul sapone e l’olio di oliva, i loro primari settori economici. Non solo: la “open border policy”, già sperimentata in India, comportò che i contadini palestinesi non fossero più in grado di competere coi prodotti agricoli importati, aumentando il loro debito e portandoli a vendere le terre a grandi proprietari terrieri.
Venticinque anni dopo, al momento del piano di partizione del 1947 e della guerra del 1948 – la Nakba, “la catastrofe” degli arabi, durante la quale l’80% della popolazione palestinese divenne profuga e più di 700 villaggi furono distrutti – il peso dell’economia ebraica era molto più forte della sua controparte araba: la quota ebraica della produzione nazionale era del 53%, ma quella della produzione industriale dell’89% e gli investimenti in capitale l’88% di quelli totali.
Il momento chiave nella costruzione della subalternità politico-economica fu però l’occupazione del 1967, in cui la Palestina fu ridotta al 22% del territorio rispetto alla Palestina del mandato, ovvero Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Tra le varie ordinanze militari emesse da Israele si possono ricordare quelle che stabilirono la chiusura di tutte le banche operanti in Cisgiordania e Gaza, tranne due, poste sotto supervisione israeliana; o l’impossibilità di importare nuove macchine (l’unica opzione era acquistarle di seconda mano); o ancora quelle che misero in atto una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni, in vigore ancora oggi, che hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività commerciale. Tra il 2016 e il 2018, le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% dei permessi di costruzione nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania.
Da allora la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state incorporate in un’unione doganale con Israele, che impone restrizioni sui tipi di merci che possono essere importate o esportate dai Territori per proteggere l’agricoltura israeliana. Ogni commercio col resto del mondo deve passare attraverso Israele ed essere gestito da personale israeliano: qualsiasi merce importata o esportata da singoli o da imprese palestinesi passa dalla dogana israeliana, che può bloccare e sequestrare tutto e che da anni trattiene i dazi doganali invece di girarli – come da Accordi di Oslo – all’Autorità nazionale palestinese. Per di più le autorità israeliane hanno proibito gli investimenti da Israele – o dall’estero – nell’economia palestinese e l’esercito israeliano ha esercitato il pieno controllo sui bilanci in Cisgiordania e Gaza, compresa la tassazione e la raccolta: i palestinesi sono stati costretti a pagare imposte sul reddito dal 3 al 10% più alte rispetto a quelle applicate agli israeliani per la stessa fascia di reddito.
L’occupazione militare ha confiscato nel tempo vaste aree di terre pubbliche e private palestinesi per la costruzione di insediamenti e riserve naturali. Alla metà degli anni 80, il 39% della Cisgiordania e circa il 31% della Striscia di Gaza erano state mappate come terre statali israeliane: secondo il gruppo per i diritti israeliano B’Tselem, durante i primi 36 anni di occupazione Israele sequestrò quasi 200mila ettari di terre palestinesi affittandole a enti, associazioni e privati per la costruzione di insediamenti.
Le confische di terreni e le restrizioni al commercio e agli investimenti causarono il collasso dell’agricoltura palestinese, che un tempo impiegava gran parte della forza lavoro autoctona: nel 1967 l’economia agricola nei Territori assorbiva quasi il 40% della forza lavoro, nel 1993 degli Accordi di Oslo meno del 20%. Comunità autosufficienti videro scomparire i loro mezzi di sostentamento e il risultato fu una diffusa “proletarizzazione” della società palestinese: molti passarono dall’essere lavoratori autonomi nell’agricoltura locale a salariati nell’economia israeliana. Nei primi vent’anni dell’occupazione, la percentuale di individui che cercavano lavoro all’interno di Israele o dei suoi insediamenti aumentò in modo esponenziale: da pressoché zero prima del 1967 a circa il 40% nel 1987, quando scoppiò la Prima Intifada.
Il lavoro palestinese serve Israele in molteplici modi. La presenza di un grosso esercito industriale di riserva riduce i costi dei salari e garantisce sufficiente estrazione di plusvalore per l’industria israeliana. Come ha detto un imprenditore al giornale Haaretz: “È quasi impossibile licenziare un lavoratore israeliano o spostarlo senza il suo permesso e un aumento del salario, invece un lavoratore arabo è eccezionalmente mobile, può essere licenziato senza preavviso e spostato da un luogo all’altro. Non fanno scioperi, non presentano richieste”. La riduzione dei costi di produzione permette di vendere merci a prezzi migliori: è dunque un vantaggio competitivo rispetto all’estero, Palestina compresa, ma come spiega Ibrahim Shikaki, professore di economia al Trinity College in Connecticut, l’esercito industriale di riserva palestinese aiuta anche a togliere potere contrattuale ai lavoratori israeliani.
Come già fu in Sud Africa, i palestinesi sono autorizzati a lavorare solo per il datore di lavoro indicato sul loro permesso (che contiene i dettagli di entrambi), a viaggiare solo nell’area del loro lavoro e devono rientrare entro un determinato orario, pena l’arresto. I permessi sono carte biometriche necessarie per attraversare i check-point, in alcuni dei quali Israele ha implementato per i palestinesi il riconoscimento facciale automatico con l’intelligenza artificiale.
I flussi di lavoro palestinese verso Israele hanno coinvolto negli anni fino al 40% dei lavoratori della Striscia di Gaza e il 30% di quelli della Cisgiordania, dove ancora oggi sono più di 200mila: “Una volta che si sottrae una così massiccia forza lavoro a un’economia, non può che conseguirne miseria”, spiega il professor Shikaki, i cui studi mostrano chiaramente che il tasso di disoccupazione palestinese è ormai strettamente correlato al ciclo economico di Israele. Con un corollario non da poco: “Oggi poi, sotto le bombe e col blocco totale delle frontiere, non si può neppure più lavorare…”.
*Clara Mattei:
Clara Mattei insegna Economia alla New School for Social Research di New York ed è stata membro tra il 2018 e il 2019 della School of Social Sciences all’Institute of Advanced Studies di Princeton. Le sue ricerche sono un contributo per la storia del capitalismo e indagano a fondo il rapporto tra le idee economiche e le politiche tecnocratiche. Il suo recente libro “the Capital Order: How Economists invented austerity and paved the way to Fascism” (University of Chicago Press, 2022) e’ stato tradotto in italiano da einaudi con il titolo Operazione Austerita’: come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo.