Pubblichiamo questi tre diari di Aya Ashor, giornalista e attivista palestinese che vive a Gaza sotto i bombardamenti israeliani. Ringraziamo Il Fatto Quotidiano.
23 agosto 2024
Io, viva per miracolo fra droni, carri armati, spari e gente in fuga
La striscia in fiamme
Khan Younis (Striscia di Gaza). Ho scampato la morte per miracolo, droni e tank avrebbero potuto uccidermi, un proiettile avrebbe potuto colpirmi. La giornata inizia come tutte le altre. Mi sveglio presto, per prepararmi a un colloquio di lavoro con Save the Children International a Deir al-Balah. Per strada all’improvviso tutto cambia. Mormorii, sussurri e poi panico quando si diffonde la notizia di nuovi ordini di evacuazione per le aree a est di Deir al-Balah. La gente corre in ogni direzione, senza sapere dove andare o cosa fare. Paura.
Il caos travolge tutto. Riesco a prendere un’auto per andare in uno dei caffè sulla spiaggia di Deir al-Balah, sperando di avere accesso a Internet e mettermi in contatto anche col Fatto. Ma la situazione peggiora rapidamente. Lascio il caffè, con l’intenzione di tornare alla mia casa temporanea, la tenda a Khan Younis, e succede il disastro. Rimango in attesa di un mezzo di trasporto mentre sfrecciano veicoli carichi di sfollati e delle loro cose. Il traffico è fermo, le auto in fila. Sembra una trappola. Sono le 4 del pomeriggio.
Nello stesso momento, a pochi metri da dove mi trovo, si consuma un massacro. I veicoli militari israeliani bloccano la strada principale vicino al porto, a soli 800 metri da me: il terrore inizia a stringermi il cuore. Inizio a camminare senza meta, chiedendo a tutti quelli che incrocio: “L’esercito è al porto?”. La paura mi fa correre per 500 metri, tutti corrono trascinandosi dietro i bambini. Qualche ambulanza prova a passare con feriti e moribondi. Nel bel mezzo del panico, trovo un amico. Mi vede correre e mi chiede dove stia andando. Mi avverte: “Vai verso la morte”. Mi offre un riparo per la notte, ma rifiuto. Non riesco a pensare ad altro che tornare dalla mia famiglia. Se devo morire, voglio stare con loro. Il mio amico decide di restare con me. Non mi lascia andare da sola, rischia la sua vita per me. Corriamo insieme, nonostante gli avvertimenti dei carri armati in avvicinamento e dei droni che sparano su tutto ciò che si muove. Le persone trasportano altri feriti sui carri trainati da animali, dirigendosi verso l’ospedale a 5 chilometri di distanza. Le ambulanze sono sovraccariche di cinque o più feriti alla volta. Le donne singhiozzano stringendo i loro figli. Sul lungomare c’è chi offre acqua agli sfollati, ma tutto ciò che riesco a sentire sono i suoni dei droni sopra la testa, gli spari e il rombo dei carri armati.
A un certo punto, i droni volano così bassi sopra di noi e iniziano a sparare a caso. Il mio amico mi tira sul ciglio della strada e ci sdraiamo a terra, cercando di proteggerci. Mi copro le orecchie, cercando di bloccare i rumori degli spari, dei carri armati, delle ambulanze, delle donne che urlano e dei bambini che piangono. Il cuore batte all’impazzata, voglio solo tornare dalla mia famiglia. Aspettiamo un’eternità, 20 minuti, finché droni e carri armati non si sentono più. Il mio amico mi prega di restare al riparo, ma io non posso più aspettare. Mi libero dalla sua presa e corro via. Vedo corpi sparsi a terra, sangue ovunque, feriti, l’aria densa di polvere.
Il mio amico mi raggiunge di nuovo e corre con me fino a una zona relativamente sicura. Crollo in lacrime, sopraffatta. Uno sconosciuto mi passa una bottiglia d’acqua per lavare la polvere e il sudore dal viso e io lotto per riprendere fiato. Sono sopravvissuta questa volta.
Mi sono girata verso il mare e ho visto centinaia di persone correre lungo la spiaggia, cercando di fuggire da Khan Younis. Con le loro cose, i droni e i carri armati pattugliano ancora la strada parallela alla riva. Nonostante la distanza, i droni continuano a sparare su di loro. Ringrazio il mio amico per essere rimasto con me, ma insisto perché ritorni dalla sua famiglia. Sono le 7 di sera. Proseguo da sola, dopo aver percorso più di un chilometro e mezzo a piedi. Cerco un veicolo per il resto della strada da fare. Trovo solo un carro trainato da un asino. Poi provo a chiamare la mia famiglia, ma l’Idf ha interrotto la rete di comunicazione. Quando l’autista del carro deve prendere un’altra strada non ho scelta: devo proseguire a piedi. Dopo 3 km di cammino trovo una bicicletta con un piccolo carrello attaccato e pedalo per gli ultimi 200 metri che mi separano dalla mia famiglia.
Finalmente sono arrivata, corro tra le braccia di mia madre, piango. Il calvario delle ultime ore mi sconvolge. Sono sopravvissuta, ma dentro di me combatto un’altra battaglia. Ho visto i carri armati da vicino, ho visto i corpi delle persone fatti a pezzi. Sono sotto choc, tremo mentre mia madre mi tiene stretta e mi accarezza i capelli. Non posso credere di aver vissuto tutto questo. Come ho fatto a sopravvivere? Dico a mia madre che voglio solo dormire.
18 agosto 2024
Le nostre tende già stracolme e arrivano altri sfollati in fuga
Da Gaza sotto le bombe
Khan Younis (Gaza). Sfollamenti, sfollamenti e ancora sfollamenti. Noi civili della Striscia di Gaza ci troviamo intrappolati tra l’avanzata delle forze militari israeliane e la distruzione lasciata dalla loro scia. Ieri mattina, dopo aver subito un’altra terrificante evacuazione, i residenti della zona orientale di Khan Younis – un’altra area rispetto a quella da cui scrivo io – sono tornati con cautela nei loro rifugi di fortuna, sperando che la relativa tranquillità significasse il ritiro dell’esercito. Ma nel giro di due ore le loro speranze sono state infrante dall’avanzata di terra dell’esercito, che ha costretto a un’altra disperata fuga verso la salvezza. Quando sono arrivata per provare a documentare il caos in atto, ho rivisto panico e disperazione. Nel pomeriggio, in un altro rifugio, ero impegnata in una lezione a un gruppo di studenti (tra i 10 e i 14 anni, per un progetto Unicef) quando abbiamo percepito il “suono” inquietante di un’altra ondata di sfollati in arrivo da altre zone. A meno di un chilometro e mezzo da lì, l’artiglieria israeliana era in azione. Ho concluso la mia lezione e ho deciso di avventurarmi verso la zona più pericolosa per scriverne sul Fatto.
Ancora una volta davanti a me donne e bambini in fuga per le strade, aggrappandosi a qualsiasi cosa riuscissero a portare con loro, mentre gli elicotteri israeliani sparavano indiscriminatamente proprio sulle aree che i militari avevano precedentemente ordinato di evacuare. Gli stessi elicotteri, volando a quote pericolosamente basse, sono tornati a scatenare il fuoco sui civili rimasti, amplificando il terrore. Durante la mia “passeggiata” ho incontrato Walid Al-Saqa, 14 anni, che portava con sé una pentola di cibo caldo, probabilmente il primo pasto che la sua famiglia era riuscita a preparare da tanti giorni, non ho osato chiederglielo. Gli ho chiesto della situazione e mi ha raccontato con voce tremante: “Ci eravamo appena seduti a mangiare quando all’improvviso abbiamo sentito degli spari. Gli elicotteri hanno iniziato a sparare a caso sulla gente da lontano per farla ripartire. Eravamo tornati da appena due ore dopo aver passato la notte per strada. Non vogliamo passare un’altra notte fuori. Dove possiamo andare?”.
Ho parlato anche con Radwa Al-Sayed, 76 anni, una donna anziana e fragile che è stata sfollata innumerevoli volte. Ha condiviso la sua angoscia: “Mia cara, siamo fuggiti dal Nord a Nuseirat, poi a Rafah e successivamente a Deir Al-Balah. Ora siamo a Khan Younis. Ci hanno detto di andare a est, ma nemmeno l’Est è sicuro. Non c’è più un posto sicuro. Ci ingannano, giocando con i nostri nervi e costringendoci a scappare più e più volte”.
Venerdì la nostra tenda aveva dato rifugio a sette famiglie fuggite dalle aree circostanti di Hamad City. Nonostante lo spazio piccolo e angusto, insieme ad altre famiglie nelle loro tende vicine, abbiamo fatto posto a oltre 40 persone. Ieri mattina, quelle stesse famiglie sono tornate ai loro rifugi originari, per poi fuggire di nuovo verso la nostra tenda tre ore dopo, quando sono ripresi i bombardamenti.
Mentre osservavo le infinite ondate di sfollati, ho visto con orrore l’ennesimo complesso residenziale di Hamad City ridotto in macerie, edificio dopo edificio. Sembra che l’obiettivo dell’Idf sia quello di demolire tutti i 18 complessi residenziali della città, cancellando una delle ultime aree abitative rimaste a Khan Younis. La distruzione metodica di Israele mira a costringere tutti i civili in tende di fortuna lungo la costa, allontanandoli dalle loro case. Nel frattempo, gli ordini di evacuazione a Khan Younis si sono estesi ad altre aree. L’esercito israeliano ha contattato i civili delle regioni adiacenti a quelle per le quali era stata ordinata l’evacuazione, esortando loro e i loro vicini ad andarsene. È fondamentale capire la geografia: Deir Al-Balah, con una superficie di soli 15 chilometri quadrati, ospita oggi quasi 800 mila sfollati. Circa 300 mila hanno ricevuto l’ordine di evacuare dalla parte orientale della città, mentre altri 500 mila sono ammassati in aree che, per ora, sono ancora considerate sicure. Ma dove troveranno rifugio i 300 mila abitanti della parte orientale di Deir Al-Balah e i 100 mila di Hamad e della parte orientale di Khan Younis? Le “zone sicure” ora rappresentano solo l’11% della Striscia.
17 agosto 2024
Giù le torri di Khan Younis. West Bank, coloni scatenati
Colpite di nuovo altre “zone sicure”
Khan Younis, le torri di Hammad City sono venute giù una dopo l’altra con i loro 85 appartamenti. Erano case di persone, invidiate da chi sta in tenda come me, qui sfollata, colpite dalle bombe dell’esercito israeliano: boati terrificanti, detriti e polvere a grandi distanze. La distruzione sistematica delle torri di Hammad City ho potuto osservarla da non troppo lontano. I missili hanno colpito le torri a distanza di cinque minuti, l’esplosione e poi una nuvola di polvere che si alzava a occhio per più di 30 metri nell’aria, questa la scena terrificante che si è ripetuta finché non sono rimaste che macerie.
È successo di nuovo. Infatti, l’incubo si ripete. Ieri mattina i caccia israeliani avevano prima sganciato volantini sulle “aree sicure” di Khan Yunis, ordinando l’evacuazione urgente di vasti blocchi. L’Idf ha avvertito di una pesante operazione militare contro “terroristi”. Questo annuncio ha provocato la solita paura e ansia qui tra i civili. Gli isolati da evacuare non sono dove c’è la tenda della mia famiglia questa volta, ma non lontano, vicino ad Hammad City, già svuotata pochi giorni fa, insieme alle zone orientali e a Deir al-Balah. L’esercito ha chiesto agli sfollati di queste aree di trasferirsi in altre “zone umanitarie” già sovraffollate.
L’Idf ha dato alle famiglie solo cinque ore di tempo per raccogliere gli effetti personali e il cibo rimasti prima di lanciare un assalto di terra con i carri armati, accompagnato da incessanti attacchi aerei e da bombardamenti d’artiglieria che hanno rimbombato nelle nostre orecchie. Si è scatenato il caos: la gente è fuggita per salvarsi, abbandonando i propri beni per salvare i figli. L’esercito ha persino ordinato ai lavoratori della vicina città di Asdaa di evacuare con una rapida telefonata, proprio mentre i veicoli militari si avvicinavano sul terreno anche là. Quest’area non era stata menzionata nei volantini del mattino come parte delle zone di evacuazione, secondo i testimoni che sono riusciti a fuggire e che poi abbiamo incontrato qui. Con i trasporti interrotti, gli sfollati sono stati costretti a camminare a piedi, trasportando quel poco che potevano sotto il sole cocente. Queste scene sono una palese violazione della dignità umana.
Le persone sono fuggite con tutto ciò che potevano portare con loro. Alcuni sono dovuti rimanere indietro perché non potevano permettersi né auto né carretti trainati da animali. Una donna di nome Maryam Alyan, 44 anni, ci ha detto: “È il sesto ordine di evacuazione. Dove dovrei andare? Non c’è un posto sicuro e non c’è spazio da nessuna parte. Sono fuggita con i miei figli dal nord due mesi fa per fame e ho lasciato mio marito lì. Nessuno è responsabile della mia famiglia, tranne me. Dove dovrei andare?”. Un’altra donna, Asmaa al-Dos, 19 anni, si è sfogata: “Eravamo seduti quando all’improvviso abbiamo sentito il rumore dei bombardamenti e la gente gridava di evacuare. La nostra zona non era inclusa nelle aree di evacuazione. Ma gli aerei attaccano lo stesso. Abbiamo camminato senza una meta precisa e quando abbiamo raggiunto le zone non bombardate, la gente ci ha offerto dell’acqua… Non riesco a trovare le parole per descrivere il terrore che ho provato nelle ultime tre ore, ed è la quarta volta che ci capita”.
Nel frattempo, non lontano da qui, in Cisgiordania, giovedì sera, i coloni hanno attaccato il villaggio di Jit: incendio di case e auto, vandalismo delle proprietà e spari contro gli abitanti del villaggio, è morto un ragazzo, Rashid Sada, 23 anni, ferite più di dieci persone. Questi assalti organizzati assomigliano alle tattiche utilizzate dalle bande Haganah e Irgun nel 1948, con l’obiettivo di costringere i residenti a lasciare la loro terra attraverso il terrore. L’Idf nei fatti fornisce protezione a questi attacchi dei coloni, mentre anche gli Usa e l’Ue, almeno a parole, condannano.
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