di Dirar Tafeche – medico ed intellettuale palestinese.                                  

Particolare dell’opera dell’artista di Dia Al Azzawi dedicata a Sabra e Chatila

Che cosa ci si aspetta da un popolo che è stato sradicato con la forza dalla sua terra?

Che cosa ci si aspetta dal popolo a Gaza, sottoposto ad un opprimente e totale assedio per 17 anni?

Che cosa ci si aspetta da me, il sottoscritto, nato in Palestina nel ’44 e considerato, per legge dello stato di Israele, “assente”?

Nonostante che il popolo palestinese sia sottoposto ad ogni sopruso e tirannia, resiste e continua a resistere. La pioggia di bombe che cadono dal cielo sono di diversi quintali che scavano voragini non solo nel suolo, ma anche nella mente, intrisa sempre da ricordi e di speranza d’aver giustizia.

Il massacro di Sabra e Chatila non è diverso dal massacro di Der Yassin, dal massacro di Tantura nel ’47, di Kafar Qasem nel ’56 e nemmeno diverso dai massacri durante la trentina di operazioni militari condotte per espellere la popolazione autoctona palestinese nel ‘48.

“Ma oggi? Quale è il simbolo stenografico universale per Israele, riprodotto in tutto il mondo in migliaia di editoriali di giornali e vignette politiche? La stella di Davide blasonata su un carro armato … Agli occhi del mondo attento, il fatto che la bisnonna di un soldato israeliano, morta a Treblinka non è scusa per il trattamento abusivo riservato a una donna palestinese in attesa di attraversare un checkpoint. Ricordare Auschwitz non è risposta accettabile”

* da una lettera di Tony Judt pubblicata su Haaretz il 2.5.2006 col titolo: the country that wouldn’t grow up.

Il ricordo di eventi così tragici non è un rituale ripetitivo. Il popolo che è stato “strappato dalle sue radici” ha la propria identità, origine, storia e cultura. Ricordare gli eventi tragici è un grido contro la crudeltà e l’arroganza israeliana. Questo è il modo migliore per ricostruire il futuro con piena degnità.

Nel settembre del 1982, il ministro della difesa israeliana, Ariel Sharon, è a Beirut in Libano per “l’Operazione pace in Galilea”. Ordina a suoi alleati mercenari delle falangi libanesi, muniti di asce, fucili e bastoni, di irrompere dentro i campi. Mentre i soldati israeliani, appostati in cima agli edifici circostanti guardando con i binocoli, illuminano i due campi profughi di Sabra e Chatila. In tre giorni e tre notti, si contano cumoli di cadaveri decomposti e ammassati qua e là.

Il giornalista Robert Fisk del The Guardian scrive: “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. … Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro legame fisico con le vittime che ci erano attorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte”

Invece, Sandro Pertini, uno dei più grandi partigiani italiani e Presidente della Repubblica italiana nel messaggio di Capodanno del 31 dicembre 1982 disse: “Io sono stato nel Libano. Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. E’ una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. E’ un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando dalla società».

Nel tempo, in Israele si formò una commissione per giudicare l’operato di Sharon.  Gli venne impone solo di dimettersi da ministro,  forse per non aver commesso il massacro, ma per aver infangato il nome di Israele.

In Italia, per giorni e settimane, tutte le notizie e dibattiti erano centrati su Sabra e Chatila, grazie alla tenacia del giornalista Stefano Chiarini e suoi compagni nel “Comitato per Sabra e Chatila”, i mass media hanno dato ampio eco alla carneficina.

 Vignetta di Vauro dedicata a Stefano Chiarini

                                                                         

Ma oggi, che dire della mano insanguinata di Israele a Gaza e nei territori occupati? Che dire dei soldati che incidono la “X” sul calcio del fucile per indicare orgogliosamente il numero di palestinesi uccisi? Che dire dei cimiteri sempre più ingrossati di vittime che cercavano libertà e identità?

Non lacrime, ma fiori che coprono tutti cimiteri in Palestina e altrove.

Dirar Tafeche, Rho, 14.9.2024

Nota. I nomi dei fiori più diffusi in Palestina. Dall’alto:

Timo essenziale per il za’tar

Khbbezeh o malva. Pianta commestibile che cresce spontaneamente conosciuta in tutta Palestina.

Fiore di melograno

Fiore di fichi

Fiore d’arancio

Fiore Iris di Faqqu’a. (E’ una varietà di iris scoperta da un botanico inglese a Faqqu’a, un villaggio vicino a Jenin)

Ramo d’olivo

Fiore di fragole

Fiore di gelso, in arabo “tut”

Fiore di akkub, pianta commestibile e famosa in tutta Palestina

Cactus in fiore

Fiore di Rheum Palestinum, cresce unicamente in Palestina da cui il nome  

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