di Mohamed ABDALLAH –

Faceva ancora caldo, quel 18 settembre 1982, e umido. All’afa d’estate si era aggiunta l’aria pesante di guerra. Bombardamenti, corti di elettricità, d’acqua, di cibo. Morte; tanta morte. Eravamo scappati da casa, da Shatila, perché noi palestinesi eravamo il bersaglio numero uno dell’invasione israeliana del Libano, iniziata qualche mese prima, ed i campi profughi non erano sicuri.

Dopo la fuga sotto i bombardamenti – 8 persone come sardine in una Renault 5 – mio padre aveva trovato un appartamento vuoto a Ras Beirut, quartiere della Beirut bene, dove potevamo stare in relativa sicurezza. E da lì ascoltavamo in continuazione le notizie trasmesse dalla radio. Portavamo l’acqua da un pozzo vicino a casa, 11 piani a piedi perché non c’era l’elettricità per l’ascensore. Facevamo fila per ore, per comprare il pane nell’unico panettiere rimasto aperto in zona. Dormivamo per terra nei corridoi interni, più sicuri in caso di bombardamenti. Giocavamo a carte, a Backgammon ed al mio gioco preferito: indovina il plurale. Mio padre passava giorni assente da casa, perché il suo lavoro alle Nazioni Unite – faceva l’autista – lo teneva occupato; e ci teneva preoccupati, per la sua incolumità.

Quell’appartamento era enorme, ma presto si era riempito di altri familiari, anche essi scappati da zone meno sicure, tanto che dovevo ogni tanto andare a dormire dalla nonna. Anche lei era riuscita a scappare da Sabra in tempo, ed aveva trovato un appartamento vuoto vicino a noi dove viveva con le mie due zie. Pensavo di poterli proteggere io; dopo tutto, ero un uomo e loro tre donne. Avevo 15 anni, ero basso, piccolo e magro. Sciocchezze di gioventù. 

Un giorno qualunque, dicevo. Nel giornale-radio parlavano di voci non confermate, qualcosa sarebbe stato successo a Sabra e Shatila, ma non era facile capire cosa. Alcuni parlavano di saccheggi, altri di massacro. Ma come era possibile? Menachem Begin aveva promesso di proteggere i civili, dopo l’uscita dei guerriglieri palestinesi dal libano, due settimane prima. Gli stessi responsabili statunitensi avevano assicurato la nostra sicurezza.

All’improvviso qualcuno aveva bussato alla porta, era Naim, amico di mia zia Huda. Uomo grosso, grasso, alto, scuro, voce da baritone. Era agitato, confuso, parlava con frasi incompleti, incomprensibili. “L’anello, l’anello. Era il suo. La faccia, ma quale faccia?!”. Strillava come un bambino e piangeva inconsolabilmente. Dopo molta fatica abbiamo capito: era appena stato all’obitorio dell’ospedale della AUB (American University of Beirut), dove aveva riconosciuto il corpo di suo fratello più giovane. Era mutilato, gonfio, la faccia irriconoscibile. All’inizio aveva deciso che non era lui ed era andato via dall’ospedale. Poi ci ha ripensato ed è ritornato a rivedere. Lo ha riconosciuto dall’anello che portava. Lo avevano trovato a Sabra. Ma che cosa era andato a fare lì? Non era un posto sicuro. Perché era lì? Dopo un’ora Naim se ne andò e ci vollero altre due ore perché mie zie si calmassero un po’.  

-“Nonna, io vado a casa dalla mamma. Non la vedo da due giorni”.

-“Va bene, figlio mio, fa’ attenzione per strada”.

Dovevo per forza andare a vedere che cosa stava succedendo. Era Shatila. Casa mia: Dove sono nato e cresciuto. Dove giocavo a calcio, da secondo capitano della squadra. Dove ero il più bravo a scuola, quello che aiutava gli altri che non capivano le lezioni. Dove suonavo la chitarra nella banda di amici, e cantavamo i Beatles, i Pink Floyd, i Bee Gees, i Ricchi e Poveri.

Andare a Shatila? In questo momento? A far che? Non ne avevo idea. Ma andare dovevo. E come arrivarci? Le strade erano piene di soldati israeliani e alleati falangisti. Sì, è vero, ma loro non conoscono la città come me; tutti le viuzze, i cammini non segnati. Comunque ero determinato. Dopo un paio d’ore ci sono arrivato. L’entrata al campo profughi di Shatila, quella del lato est, da Horsh Beirut, quella non la conoscono gli israeliani. Il profumo dei pini del Horsh copriva appena la puzza che regnava nell’aria. Quella puzza, però, era destinata ad aumentare. Nel campo c’era il pandemonio. Tanta gente, ambulanze, camion, confusione totale. Uno che portava la divisa della Croce Rossa mi prese per mano e mi disse “Vieni!”. Mi diede una pala e indicando una casa disse “porta fuori!”. ‘Porta fuori cosa?’ gli volevo chiedere, ma lui era già andato da un’altra parte. Dentro quella casa c’erano quattro corpi, una famiglia, almeno così pensavo. Erano due adulti e due bambini. Morti, mutilati. Sangue asciugato dappertutto, topi, scarafaggi, mosche, tante mosche. Mi sono impietrito di fronte a questa scena, per quelle che sembrava un’eternità, finché la puzza mi fece vomitare. Poi mi sono messo all’opera. Trascinai i corpi degli adulti fuori dove qualcun’altro mi aiutò a metterli dentro a un piccolo camioncino, già pieno di altri corpi, mutilati e gonfiati nel caldo estivo, braccia staccate, una testa mozzata. I corpi dei due bambini li potevo caricare da solo. Non ricordo bene il resto della giornata, di quanti corpi ho portato fuori da quante case.

Ricordo che ad un certo punto mi trovai di fronte a casa mia, vuota, perché mio padre aveva delle conoscenze e, quindi, aveva potuto trovare quell’appartamento a Ras Beirut. L’appartamento della salvezza. I vicini di casa, sette figli in tutto, erano tutti massacrati. Loro erano ancora più poveri di noi, loro padre vendeva frutta nel mercato di Sabra. Avevo sempre pensato che loro fossero più forti, più resistenti di noi, che sarebbero vissuti più a lungo di noi; non si ammalavano mai, forse perché giocavano in mezzo alle schifezze del campo profughi, nella fogna a cielo aperto, erano sempre sporchi. Io e miei fratelli, invece, eravamo sempre puliti – mia mamma era, è, maniaca dell’igiene –, ma eravamo sempre malati. 

Non ricordo quando e come, sono tornato a casa, quel giorno; quel giorno qualsiasi. Oppure come sono riuscito a lavarmi e prendere una camicia pulita, per strada. Ricordo, però, che a mia mamma, a casa, non ho detto niente. Difatti, della mia esperienza di quel giorno, la mia famiglia non ha saputo niente per decenni. Come potevo descrivere, lascia stare spiegare, quello che avevo visto, quello che avevo sentito? Se non lo capivo neanch’io. Non capivo quel senso di eccitazione che sentivo; Era imbarazzante!

L’ho capito solo anni dopo, parlando con un vecchietto abruzzese che sopravvisse alla Seconda guerra mondiale. Mi disse: “la guerra è la cosa più brutta del mondo, ma cavolo, ti senti vivo come mai”. 

I pianti, però, non sono mai arrivati. Com’è curiosa la vita! Quella eccitazione, però presto si tramutò in rabbia. Rabbia per le vite umane spezzate, per le ripetizioni di tali atrocità, che sembravano infinite, per l’impunità dei responsabili.

Il massacro causò un clamore mondiale, certo. Ma gli israeliani diedero la colpa ai falangisti, i falangisti si giustificarono con il raptus che li aveva presi dopo l’assassinio del loro leader Bashir Gemayel, altri diedero la colpa ai leader palestinesi, per aver lasciato il loro popolo in quella posizione vulnerabile.

Dare la colpa alle vittime, un classico!

Le critiche forzarono Ariel Sharon, ministro della difesa e di fatto capo dell’esercito israeliano, a prendere un periodo sabbatico dalla politica, per qualche anno, per poi tornare con forza e vigore a dominare la scena politica israeliana, fino alla sua morte, lasciando il testimone da leader sanguinario a Benjamin Netanyahu.

Elie Hobeika, leader dei falangisti, rimase come importante leader politico e ministro di vari governi libanesi, fino alla sua morte in un attentato; guarda caso, è stato assassinato quando stava per testimoniare contro Sharon, per i fatti di Sabra e Shatila.

La lezione, dunque, era molto dura da digerire, ma molto chiara: i massacri di civili sono condannabili solo quando servono ai propositi politici dei potenti. Dei Palestinesi, i potenti del mondo se ne fregano. Non osate a usare parole como genocidio, sterminio, autodifesa. Queste parole sono riservate a uso esclusivo di altri, quelli che lo hanno guadagnato col loro sangue. Voi Palestinesi non avete guadagnato questo diritto, non ancora.

Un giorno qualunque, dunque, il 16 settembre 1982, il 17 settembre, il 18; quando morirono migliaia di palestinesi sotto i colpi di machete dei falangisti e degli israeliani. E molti altri giorni da allora. Perché i palestinesi morivano – e muoiono tutt’ora – sotto i colpi degli israeliani quasi ogni giorno a Gaza e in Cisgiordania. Ma quelle vite contavano poco e non facevano – e non fanno tutt’ora – notizia. C’est la vie! È complicato da spiegare. Ma gli israeliani sono nostri amici. Già!

Il mondo ha prestato attenzione solo dopo il 7 ottobre, e da allora assistiamo impietriti ad un massacro quotidiano, interminabile, di civili palestinesi, sotto la scusa dell’autodifesa, quella riservata a loro israeliani. Ogni giorno, o quasi, un altro Sabra e Shatila.

Questa rabbia mi era sparita da qualche anno. Scambiata per speranza, per amicizia, per conoscenza. Mi ha salvato l’Italia, da quell’incubo che era il Libano degli anni ’80. Un anno dopo il massacro di Sabra e Shatila, ho vinto una borsa di studio per studiare in un liceo internazionale in Italia, dove ho condiviso una stanza con un ragazzo israeliano per un anno. All’inizio avevo paura che mi mettesse un coltello al collo mentre dormivo. Ma poi mi sono abituato. Ed ho imparato, tanto, da quell’esperienza! Tanto che ho accettato l’esistenza di una perspettiva diversa, contraria. Tanto che pochi anni dopo mi sono sposato con una americana cattolica. In chiesa, il mio testimone, il mio miglior amico, era un ebreo. E per anni ho cercato di lottare, nel mio piccolo ovviamente, contro la logica della violenza, quella che è ormai diventata la strategia predominante di israeliani e palestinesi per decenni. Certo, ci sono stati tentativi di pace, un paio anche seri. Ma quei leader – Rabin e Arafat – che li hanno fatti, sono stati uccisi. E da allora, e sono passati 30 anni, non ne vediamo un tentativo serio.

Vediamo solo “messaggi” da una parte all’altra: Israele ucciderà chissà quanti palestinesi per dimostrare la sua forza e determinazione e mandare un “messaggio” forte e chiaro ai palestinesi che non lo sconfiggeranno. I palestinesi uccideranno chissà quanti israeliani per mandare un “messaggio” forte e chiaro che dalla Palestina non se andranno via mai. Messaggi ricevuti, ma non capiti. Anzi, la lezione che danno è solo una e per di più sbagliata: l’altra parte sarebbe composta solo di mostri con cui non si potrebbe mai dialogare. Netanyahu dice – dopo 40 mila morti, 100 mila feriti e 2 milioni e mezzo di vite spezzate, e non è ancora finita – che la sicurezza di Israele sarà maggiore, perché questi sopravvissuti saranno sottomessi. Follia assurda, analisi da un malato di mente! Ma Netanyahu non è, né stupido, né malato di mente. C’è invece un disegno politico che tutti sanno, ma nessuno ha il coraggio di affrontare. In fondo, sembra che la pace non convenga ad alcuni.

Ma la speranza è l’ultima a morire. Nel mezzo di questa infinità di giorni qualunque, nel mezzo dei pianti, adesso copiosi, del sonno mancato, degli incubi, la speranza mi rimane. I giovani non sono tanto schiavi della storia, come i loro genitori, quelli con la testa ancora sepolta ciecamente nel pozzo della Storia. I giovani vedono quello che succede con occhi aperti.

Forse tra qualche anno, potranno cambiare questa storia infinita.

Datemi dell’incallito ottimista, se volete, mi avevano apostrofato con molto di peggio. Ma questa speranza è l’unica cosa che mi rimane.

Mohammed Abdallah, economista palestinese. Vive e lavora in Italia.

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