di Adel Jabbar

Negli scorsi giorni è stato presentato, in diverse occasioni, il libro del sociologo iracheno Adel Jabbar, “Nuovi volti e vecchi luoghi, paesaggi migratori in Alto Adige/Südtirol”, uscito questo mese per le edizioni Alphabeta – 2024 – 18,00 €.

Pubblichiamo qui l’introduzione del libro, ringraziando l’autore per la sua gentilezza e attenzione, oltre al valido lavoro per una società multiculturale.

La Migrazione: una costante attualità

Adel Jabbar

                                                                                Tu lascerai ogne cosa diletta

                Più caramente; e questo è quello strale

                                                                                                     che l’arco de lo essilio pria saetta.

                Tu proverai sì come sa di sale

                                                                                                    Lo pane altrui, e come è duro calle

                 Lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

                                                                 (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, XVII)

Cenni storici sull’immigrazione nel dibattito pubblico

Il dibattito attorno alle tematiche  dell’immigrazione investe principalmente due aspetti fondamentali. Uno è quello relativo alle condizioni materiali e sociali, l’altro riguarda la sfera culturale.

Brevemente, partendo dall’ambito culturale, quando venne formulato l’articolo 6 della Costituzione Italiana, che afferma  “La repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”, la preoccupazione del legislatore era quella di tutelare un patrimonio linguistico – culturale proprio delle minoranze storicamente presenti sul territorio. Di certo non si pensava che un giorno l’Italia sarebbe diventata una destinazione di immigrazione, e quindi avrebbe dato accoglienza, a nuovi gruppi portatori di lingue, costumi e altri modelli culturali. Di fatto, nella normativa relativa alla regolamentazione della presenza dell’immigrazione in Italia sin dalle prime leggi, la n.943 del 30 dicembre1986 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine), la legge n. 39 del 28 febbraio 1990 (conosciuta come legge Martelli), passando per il Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998) e la legge n. 189 del 30 luglio 2002 (nota come legge Bossi-Fini), ai vari successivi provvedimenti normativi, il legislatore ha cercato di prevedere a affrontare entrambi questi aspetti relativi allo status di immigrata/o.

In ogni caso, il multiculturalismo è in qualche modo previsto dalla  Costituzione italiana, il che in un certo senso apre la strada ad un riconoscimento, anche legislativo, di una pluralità di lingue e culture. Ciò vale tanto più in una realtà locale, come l’Alto Adige, dove tale peculiarità è assunta a fondamento stesso della convivenza fra le comunità autoctone.

È anche evidente tuttavia che le questioni introdotte dai nuovi gruppi oggi presenti sul territorio non si esauriscono con gli aspetti linguistici e culturali. I movimenti migratori odierni sono, essenzialmente, motivati dalla ricerca di riparo fuori dai luoghi devastati dalle guerre, dalla ricerca di lavoro e comunque orientata necessariamente in questa direzione. Sul piano legislativo la condizione del lavoratore immigrato già a suo tempo è stata riconosciuta in Italia attraverso la ratifica della Convenzione di Ginevra del 24 giugno 1975, n. 143 dell’O.I.L., con legge n.158,10 aprile 1981, successivamente recepita nella normativa sull’immigrazione, che formalmente equipara il lavoratore straniero al lavoratore italiano.

Infatti possiamo affermare che l’immigrata/o, che è caratterizzato dalla diversità legata alla sua origine, somma a questa diversità l’appartenenza ad una  fascia socialmente fragile della popolazione anche e in virtù delle condizioni materiali di partenza, finendo così spesso per occupare una posizione debole nella gerarchia socioeconomica del paese di arrivo.

Per cogliere meglio questa specificità, si può cercare di descrivere  brevemente un profilo della persona migrante.

Soprattutto nella prima fase di questo processo l’immigrata/o arriva spesso in modo  travagliato, va ad occupare posizioni  precarie nel mercato del lavoro, e non di rado si  muove tramite canali ancora una volta informali. Nel primo periodo, che è coinciso circa con la seconda metà degli anni ’70, i flussi immigratori sono stati impersonati soprattutto da donne, provenienti dalle Filippine, da Capo Verde, e dell’Eritrea. Seppure con specificità e motivazioni diverse, queste immigrate si sono inserite  nel lavoro domestico e nel settore dell’assistenza privata, ambiti chiusi e con poche opportunità di incontro e di scambio. Questa componente, infatti, è rimasta per quasi un decennio pressoché invisibile, non riconosciuta all’interno di un fenomeno sociale come quello dell’immigrazione, e pertanto non regolamentata.

Negli anni ‘80, il processo ha assunto una maggiore visibilità attraverso l’arrivo di uomini provenienti in particolare dal Marocco e dalla Polonia, e successivamente anche dal Senegal, che la società locale  poteva incontrare quotidianamente all’aperto, nelle strade  e sulla porta di casa (ambulanti), in mezzo al traffico cittadino (lavavetri) di alcune città italiane.

Quindi, a seguito dell’instabilità politico-economica venutasi a creare nell’area balcanica prima, poi nei paesi africani del Sahel e in altri numerosi contesti e di conseguenti disordini, conflitti  armati e guerre, si è assistito al consistente arrivo di profughi e di rifugiati. Tante  persone di diverse provenienze  che sono approdate in Alto Adige sono state, involontariamente,  protagoniste di questo tipo di  migrazione forzata.

Oggi, da qualsiasi luogo arrivino le persone con background migratorio, un fatto è  certo: si tratta di contesti geografici ad elevata problematicità, periferici e marginali rispetto alla gerarchia politico-economica e culturale simboleggiata dal modello egemonico occidentale, sul quale tali paesi  hanno poca possibilità di influire o di incidere.

Queste dunque sono la maggioranza delle  persone alla ricerca di riparo e di opportunità. Individui che di fatto vivono una condizione di notevole debolezza, economica, sociale e giuridica, sia di partenza, sia nei luoghi di residenza in Italia  dove si trovano ad affrontare un lungo e complesso percorso d’inserimento. Nelle prime fasi del percorso sono quasi del tutto privi di una rete sociale e di luoghi di partecipazione sui cui appoggiarsi. Spesso nei confronti di questo segmento sociale si riscontra un atteggiamento molto diffuso che si manifesta come tolleranza se le/ i migranti  vengono considerate come forza lavoro, come allarme sociale, invece, di fronte a singoli fatti di cronaca o a questioni di ordine pubblico, producendo in alcuni casi diffidenza, xenofobia, discriminazioni e vari pregiudizi. La posizione delle lavoratrici e dei lavoratori migranti nel settore economico-produttivo, per quanto essenziale, è comunque marginale e debole, confinata entro settori professionali da sempre caratterizzati da una certa irregolarità, dove oggi il termine flessibilità diventa la parola d’ordine. Ciò nonostante, questa grande flessibilità che il mercato del lavoro richiede non sempre trova un corrispettivo sul piano dell’accoglienza, basti pensare alla questiona abitativa. Il reperimento, ad un costo accessibile, di un alloggio dignitoso, che fra l’altro è un requisito di legge ai fini del ricongiungimento familiare, si scontra sovente con un mercato, soprattutto privato, tutt’altro che  flessibile.

Dato questo quadro la questione di fondamentale importanza che rimane ancora oggi cruciale è come attivare delle politiche capaci di creare le condizioni per l’effettiva partecipazione degli immigrati nei luoghi di residenza, rimuovendo gli ostacoli che ancora  ne impediscono l’inserimento e la partecipazione civile e istituzionale.

Gestire l’inserimento: qualche indicazione

Le direttrici su cui muoversi sono essenzialmente due, che andiamo sinteticamente a formulare.

  1. Servizi e orientamento.

Tali servizi vengono ad assumere una funzione sempre più centrale, poiché rappresentano il primo contatto con il territorio e le sue istituzioni.

Oggi non si può più parlare di immigrazione in generale, all’ingrosso, tanto per intendersi. Così come ormai si concorda sulla necessità di andare oltre un’accoglienza di tipo emergenziale, per costruire canali di accoglienza e di risposta ai bisogni che tengano conto delle diverse specificità di cui sono portatrici determinate fasce sociali. Infatti, come nella società in generale, anche fra gli immigrati sono presenti uomini adulti e single, donne, minori, anziani, persone con disagi o problemi particolari. La questione è dunque come riuscire a definire risposte adeguate e progetti diversificati, e quindi come individuare soggetti, strutture, competenze e risorse che siano in grado di gestirli. Si può, certo, anzi si deve partire dai servizi già presenti sul territorio, ma è necessario potenziarli per adeguarli alle diverse necessità che comunque comportano il rapportarsi a individui che parlano una lingua diversa e hanno acquisito consuetudini e pratiche differenti.

  • Comunicazione e promozione di diritti.

Partendo dal presupposto che la condizione sociale dell’immigrato è caratterizzata da una situazione di debolezza che va rimossa, una politica dell’immigrazione non può esimersi dal promuovere e sostenere iniziative atte a far acquisire, alle persone immigrate, conoscenze e strumenti per impostare una comunicazione efficace che riduca l’asimmetria. Per questo è necessaria la valorizzazione della persona e della soggettività in un contesto sociale attraverso la creazione di  luoghi relazionali nei quali è possibile instaurare nuovi legami interculturali di quotidianità e usufruire di opportunità di partecipazione attiva.

In questo periodo storico in cui le trasformazioni in atto vanno a modificare le concezioni stesse di appartenenza è sempre più urgente coniugare universalità dei diritti e riconoscimento delle identità soggettive e culturali. L’immigrazione rappresenta uno stimolo a ragionare, sopratutto, sulle categorie fondanti del concetto di cittadinanza, per costruire una prospettiva pluralistica. 

Cambiamento e  interculturalità

E’ importante partire dal presupposto che l’intercultura consiste in un processo implicante una trasformazione di tutte le parti coinvolte.

Si possono intraprendere ed attuare tutte le istruzioni pronte all’uso, che di certo non mancano, ma ciò va sicuramente accompagnato, in primo luogo, dall’acquisizione della differenza come valore e come bene su cui impostare un processo  partecipato  di sviluppo comune.

In secondo luogo, l’atto di accogliere le differenze come valore richiede una seppure momentanea de-costruzione dei reticolati mentali e culturali. Ossia, il contrario di ciò che in genere accade in tutti i rapporti in cui i contesti di riferimento differiscono sul piano culturale, sociale, ma anche personale, allorché si tende ad irrigidirsi sulla base di precostituiti e rassicuranti schemi di interpretazione della realtà e delle persone con le quali entriamo in contatto. Entrare in una relazione interculturale significa allora accettare l’idea che questi schemi vanno messi da parte, per creare una situazione di attesa reciproca, ove siano garantite pari opportunità di espressione.

Asimmetria fra culture

Ngugi Wa Thiong ‘o, scrittore keniota nel suo libro (Decolonizzare la mente, Jaca Book, Milano, 2015. Titolo originale “Decolonising the mind, The Politics of Language in Africa Literature) ci descrive l’incontro tra culture, partendo dalla propria esperienza. Nel primo  capitolo del volume racconta di come ha dovuto sostituire la lingua nativa, gikũyũ   con l’inglese. «L’inglese divenne la lingua della mia istruzione formale. In Kenya l’inglese divenne più di una lingua: era la lingua, e tutti gli altri dovevano inchinarsi davanti a lei in segno di deferenza. Una delle esperienze più umilianti era dunque essere sorpresi a parlare gikũyũ nella vicinanza della scuola. Il colpevole veniva sottoposto a punizione corporale (da tre a cinque colpi di bastone sulle natiche nude) o veniva costretto ad andare in giro con una tavoletta metallica appesa al collo con scritte come “Sono uno stupido” o “Sono un asini”» Pag.23. La propria cultura, appariva come retrograda e qualcosa  di obsoleto di cui disfarsi per poi poter  abbracciare una lingua e una cultura “illuminata”. Quando le diverse culture entrano in contatto ciò avviene spesso in una relazione asimmetrica: esistono culture dominanti e culture dominate, modelli centrali e altri periferici. Una delle pratiche colonialiaste e suprematiste più sperimentata è stata, effettivamente, quella dell’imposizione dei modelli culturali e delle lingue delle potenze coloniali sulle popolazioni conquistate.

Non a caso oggi diversi studiosi sostengono che da un rapporto asimmetrico fra culture non si producono “ibridazioni”, bensì “sostituzioni”, sottolineando in tal modo che il cambiamento è unidirezionale. E di fatto molti popoli sotto il dominio coloniale hanno dovuto sostituire la propria lingua, il proprio credo e visione del mondo. Parlando dell’incontro tra culture, pertanto, è opportuno considerare i rapporti di forza che entrano in gioco.

Per una memoria plurale

Affrontare temi della cultura, dell’identità, dell’appartenenza, questioni sempre più centrali nel dibattito socioculturale odierno, impone necessariamente di darvi una collocazione mondiale, data la portata delle trasformazioni che nel tempo presente investono l’intera società umana.

La riflessione diventa particolarmente problematica ma per questo ancora più importante in tempi attraversati da tribalismi, comunitarismi, neocolonialismi, guerre e terrorismo.

Tuttavia tale consapevolezza trova resistenze. Una, ostinata, è quella delle egemonie interessate a conservare ed estendere i propri interessi  e omologare il resto del mondo a tali scopi sostenendo l’universalità dei propri modelli.  Un’altra forma di resistenza è invece quella attuata dalle spinte comunitariste, le rivendicazioni della piccola patria, la concezione sacrale del territorio, radicalista rispetto alla propria storia, dove l’estraneo viene visto come un intruso nel sistema immunitario.

Entrambe queste tendenze sottacciono il tema della complessità, non offrono soluzioni in grado di gestire e affrontare il mutamento ineludibile che ha coinvolto e sconvolto relazioni umane, sociali, culturali e politiche.

Le culture, infatti, sono fluide e gli individui interpretano attivamente le loro tradizioni rinnovandole per poter gestire i cambiamenti che le relazioni con gli altri inevitabilmente comportano.

È necessario coltivare e una “memoria plurale” per saper leggere la complessità di contesti che spesso vengono ideologicamente ridotti ad entità monolitiche e omogenee. Infatti, se il confine statuale è rigido, quello culturale è fluido: gruppi separati da confini statuali possono avere consuetudini culturali simili[1], mentre altri che vivono nello stesso stato possono avere tra di loro più differenze che similitudini. La memoria non può vincolarsi a visioni ideologiche  ma oggi più che mai bisogna allenarsi a riconoscere la pluralità e la dinamicità degli elementi che contribuiscono alla formazione delle identità culturali. Le diverse sfere in cui si intrecciano le relazioni, luoghi di vita quotidiana del lavoro, della scuola, dell’aggregazione, dell’impegno politico e sociale, sono pensate, interpretate e agite da persone. Pertanto le relazioni andrebbero arricchite attraverso la narrazione di questa quotidianità, narrazione che diventa esperienza, conoscenza, sapere e condivisione.

È auspicabile, ai fini di una efficace politica migratoria, intervenire sulle problematiche che si pongono sul piano socio-economico e  su quelle riguardanti gli aspetti culturali facendo rifermento agli obiettivi del programma del 2007 “Città interculturali” del consiglio d’Europa (https://www.coe.int/it/web/interculturalcities): ugualianza, diversità, interazione e cittadinanza attiva e partecipazione. Una strategia di intervento parte di fatto dal doppio riconoscimento della necessità di tutelare socialmente l’immigrato, poiché si trova in una reale condizione di debolezza sociale, ma anche di promuoverne le potenzialità sul piano soggettivo e culturale.


[1]     Ad esempio, le comunità linguistiche possono avere una continuità territoriale al di là del confine statuale e in questo caso si parla di “penisole linguistiche” (come nel caso sloveno o in quello tirolese).

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