di Amos Goldberg*

Intervista a cura di Elias Feroz**

Luglio 2024

Lo storico israeliano Amos Goldberg parla del progetto di annientamento in atto a Gaza. E dice che non si può restare in silenzio

A distanza di nove mesi dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre che hanno massacrato oltre mille israeliani, in Palestina ancora non si vede la luce. La guerra di Israele nel nome dell’eliminazione fisica di Hamas ha ridotto gran parte della Striscia di Gaza in macerie e ucciso decine di migliaia di persone, nella maggior parte dei casi civili. Anche se la guerra finisse domani, gran parte di Gaza rimarrebbe inabitabile per anni.

Questo nuovo livello di escalation – e la portata della distruzione di Gaza – hanno acceso il dibattito sul fatto se le azioni di Israele debbano essere definite come genocidio. Questa è stata l’accusa sollevata dal Sudafrica davanti alla Corte internazionale di giustizia, alla quale si sono poi aggiunti Spagna, Belgio e Messico. La questione resta controversa tra gli esperti, ma sempre più esperti concordano sul fatto che tale valutazione sia quantomeno plausibile. In Israele, la maggior parte della popolazione è unita dietro il suo esercito. Ma c’è senz’altro anche chi critica la guerra.

Amos Goldberg è professore associato presso il Dipartimento di Storia ebraica ed Ebraismo contemporaneo presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Ad aprile, un suo articolo pubblicato su Sicha Mekommit, sosteneva che le azioni di Israele a Gaza sono genocide. In questa intervista, parla delle sue opinioni sulla guerra in corso, della situazione in Cisgiordania e del futuro di Israele e Palestina.

Qualche settimana fa hai definito le azioni di Israele a Gaza come un «genocidio» contro la popolazione palestinese. Puoi spiegare brevemente quale definizione specifica di genocidio stai applicando e perché ritieni sia importante usare questo termine per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza?

Ho scritto un articolo in ebraico intitolato Sì, è un genocidio su una rivista chiamata Sicha Mekommit, che significa Chiamata locale. È stato tradotto in inglese e ha circolato molto.

So che si tratta di un’accusa seria e non la prendo alla leggera. È stato molto difficile per me scrivere questo articolo, perché parla anche della mia gente e della mia società. Come parte di questa società, mi assumo anche io la responsabilità di ciò che sta accadendo. La portata delle atrocità e delle distruzioni avvenute in Israele il 7 ottobre non ha precedenti. Mi ci è voluto del tempo per riuscire a digerire ciò che stava accadendo e per riuscire ad articolare ciò che vedevo svolgersi davanti ai miei occhi. Ma una volta che vedi cosa sta succedendo, non puoi più tacere. Anche se è angosciante e doloroso per me, per i miei lettori o per la società israeliana, il dibattito da qualche parte deve iniziare.

Esistono varie definizioni di genocidio, ma solo una è accettata a livello globale e cioè la Convenzione sul genocidio [La Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio], adottata dalle Nazioni unite nel dicembre 1948. È una definizione legale, ma ancora vaga e suscettibile di interpretazione, motivo per cui è stata ed è tuttora criticata. La Convenzione descrive il genocidio come un crimine commesso con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale. L’intento di annientamento è cruciale, anche se non deve essere un annientamento totale.

La definizione è stata criticata per l’omissione di altre categorie, come i gruppi politici, a cui si oppose l’Unione sovietica. Allo stesso modo, la convenzione non specifica il «genocidio culturale», perché gli Stati uniti temevano di essere accusati di aver commesso un genocidio contro la propria popolazione indigena. L’inclusione degli aspetti culturali nelle convenzioni era molto importante per l’avvocato ebreo-polacco Raphael Lemkin, che coniò il termine «genocidio» e fece pressioni a favore dell’Onu, ma fu costretto a scendere a compromessi per far approvare la convenzione.

In definitiva, la definizione avanzata dalla Convenzione era il risultato di un certo momento politico e storico all’interno delle Nazioni unite, quando il Sud del mondo aveva pochissimi rappresentanti e dominavano Stati uniti e Unione sovietica. Tuttavia, oggi la maggior parte degli studiosi fa riferimento a questa definizione quando parla di genocidio. Molti hanno coniato termini aggiuntivi come democidio, etnocidio, politicidio, ecc. (che comunque non sono legali) o si sono allontanati del tutto dalle definizioni. Ma la definizione di base ampiamente accettata è quella legale della convenzione.

Il tuo articolo cita anche altri esempi di genocidio, come quello avvenuto in Bosnia, in Armenia, o il genocidio degli Herero e dei Nama in quella che oggi è la Namibia. Circa 8.000 bosniaci furono uccisi a Srebrenica, mentre si ritiene che nel genocidio armeno siano morte da diverse centinaia di migliaia a un milione e mezzo di persone. Sottolinei anche che non tutti i genocidi devono necessariamente sfociare negli orrori dell’Olocausto. A che punto dell’attuale guerra eri sicuro che le azioni di Israele a Gaza fossero diventate genocide?

Se guardi al quadro generale, ci sono tutti gli elementi di un genocidio. L’intento è chiaro: il presidente, il primo ministro, il ministro della difesa e molti ufficiali militari di alto rango lo hanno espresso molto apertamente. Abbiamo assistito a innumerevoli esortazioni a ridurre Gaza in macerie, affermazioni secondo cui non ci sono persone innocenti lì, ecc. Appelli popolari per la distruzione di Gaza si sentono da tutti i settori della società e dalla leadership politica. Nella società israeliana prevale un’atmosfera radicale di disumanizzazione dei palestinesi in una misura che non riesco a ricordare nei miei cinquantotto anni di vita in questo paese.

Il risultato è quello che ci si aspetterebbe: decine di migliaia di bambini, donne e uomini innocenti uccisi o feriti, la distruzione quasi totale delle infrastrutture, la carestia voluta e il blocco degli aiuti umanitari, fosse comuni di cui ancora non sappiamo l’intera portata, lo sfollamento di massa, ecc. Esistono anche testimonianze attendibili di esecuzioni sommarie, per non parlare dei numerosi bombardamenti di civili nelle cosiddette «zone sicure». Gaza per come la conoscevamo non esiste più. Pertanto il risultato corrisponde perfettamente alle intenzioni. Per comprendere l’intera portata di questa distruzione e crudeltà, consiglio di leggere il rapporto del dottor Lee Mordechai, che è il resoconto più completo e aggiornato di ciò che è accaduto a Gaza dopo il 7 ottobre.

Perché gli omicidi di massa siano considerati genocidi non è necessario che si tratti di un annientamento totale. Come abbiamo già accennato, la definizione afferma esplicitamente che la distruzione totale o parziale di un gruppo potrebbe essere considerata genocidio. Questo è quello che è successo a Srebrenica, come dicevi, o nel caso dei Rohingya in Myanmar.

Ammetto che, all’inizio, ero riluttante a chiamarlo genocidio e cercavo qualsiasi indicazione per convincermi che non lo fosse. Nessuno vuole considerarsi parte di una società genocida. Ma c’era un intento esplicito, uno schema sistematico e un risultato genocida – quindi sono giunto alla conclusione che questo è esattamente ciò che assomiglia al genocidio. E una volta arrivati a questa conclusione non si può restare in silenzio.

Come reagiscono i tuoi studenti, colleghi o amici quando giungi a queste conclusioni?

Come ho già detto prima, ho scritto l’articolo in ebraico. Non l’ho fatto in inglese perché volevo che gli israeliani si confrontassero con la situazione e aiutassero la mia società a superare la negazione e l’impulso di non vedere cosa sta succedendo a Gaza. Direi che la negazione fa parte di tutti i processi genocidi e degli atti di violenza di massa.

Alcuni studenti erano molto arrabbiati con me per il mio articolo, ma altri mi hanno ringraziato. Alcuni colleghi hanno litigato con me e uno ha anche scritto su Facebook che spera che gli studenti non frequentino più le mie lezioni. Altri erano d’accordo con me, mentre altri mi dicevano che avevo dato loro spunti di riflessione. Ci sono anche persone che non sono d’accordo con me, ma che almeno sono riuscito a convincere che l’accusa di genocidio non è un’accusa assurda motivata dall’antisemitismo.

Le università israeliane spesso vengono considerate un bastione della resistenza contro il governo Netanyahu. Qual è l’atmosfera nei campus israeliani in questo momento?

È vero che le università sono un baluardo dell’opposizione al governo Netanyahu. Ciò è iniziato con la riforma della giustizia, prima della guerra. Molte voci all’interno delle università si esprimono contro la guerra, anche se molte la sostengono attivamente, o addirittura incoraggiano il governo ad aumentare la pressione già disumana su Gaza.

Molti di coloro che si oppongono alla guerra lo fanno principalmente a causa degli ostaggi – che è una causa molto meritevole – ma solo una minoranza in Israele riconosce la natura disumana e criminale della guerra in quanto tale. Dovrei anche sottolineare le numerose manifestazioni di solidarietà tra ebrei e palestinesi avvenute nelle università. Tuttavia, nel complesso, direi che, come istituzioni, le università hanno fallito questa prova della loro moralità e dei loro obblighi nei confronti della libertà di parola, dell’umanesimo e dell’analisi critica della realtà in tempi di crisi.

L’Università di Tel Aviv e il suo presidente, Ariel Porat, potrebbero costituire un’eccezione, poiché lui per la maggior parte si è battuto per la libertà di parola, ma nel complesso c’è un’atmosfera di paura e repressione. Ciò è particolarmente vero per i professori e gli studenti palestinesi, che sentono di non poter nemmeno esprimere alcun tipo di empatia pubblica verso i loro fratelli e sorelle di Gaza. Non c’è spazio per i loro sentimenti e i loro punti di vista nelle università, nel dibattito pubblico, nei social media.

Alcuni professori – ebrei compresi – hanno perso il lavoro per aver espresso critiche legittime, altri non hanno perso il lavoro ma sono stati molestati. L’incidente più noto è accaduto a Nadera Shalhoub-Kevorkian, professoressa palestinese di fama mondiale presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, nota per le sue opinioni esplicite sul genocidio e sul sionismo. L’università l’ha sospesa dall’insegnamento per un breve periodo. Ha subito molestie e minacce da parte dei colleghi ed è stata addirittura arrestata e detenuta per due giorni. La polizia l’ha interrogata più volte. La sua critica potrebbe essere suonata dura e spiacevole alla maggior parte delle orecchie israeliane, ma è comunque legittima e, secondo me, per la maggior parte molto vera. Ora aspetta di vedere se verrà incriminata per «incitamento» anche sulla base dei suoi articoli accademici sottoposti a peer review.

Un altro sviluppo preoccupante è la promozione da parte dell’Unione nazionale degli studenti israeliani di un controverso disegno di legge che obbligherebbe le università a licenziare sommariamente chiunque, compresi i professori di ruolo, praticamente per qualsiasi critica allo Stato o all’esercito che il ministro dell’Istruzione consideri «incitamento» . Non tutti i sindacati studenteschi locali, compreso quello dell’Università ebraica, sostengono il disegno di legge, e anche le stesse università si oppongono con veemenza. Spero che il disegno di legge non passi, ma la coalizione di governo sta spingendo forte, insieme a parti dell’opposizione. È davvero vergognoso che gli studenti della comunità accademica israeliana stiano spingendo per una misura così draconiana e totalitaria, ed è spaventoso pensare ai risultati se il disegno di legge venisse effettivamente approvato.

La tua università respinge le accuse di genocidio contro Israele, ma d’altro canto ha immediatamente etichettato come tale l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Qual è la tua opinione? Il 7 ottobre ha i criteri per essere considerato un genocidio?

Sono d’accordo con la maggior parte delle valutazioni delle Nazioni unite e di altri, compresi gli attuali mandati emessi dal procuratore capo della [Corte penale internazionale], Karim Khan, che affermano che l’attacco di Hamas è stato orrendo e criminale, coinvolgendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Sebbene alcuni lo considerino un atto genocida, io non la penso così. Credo che sia stato un crimine terribile, in particolare il fatto di aver preso di mira i civili, la distruzione dei kibbutz e la presa di ostaggi, compresi i bambini. Tuttavia, chiamarlo genocidio estende la definizione fino a renderla priva di significato.

L’università ha esplicitamente rifiutato il termine genocidio per quanto riguarda le azioni di Israele quando ha condannato Nadera Shalhoub-Kevorkian. Hanno affermato che era scandaloso chiamarlo genocidio, nonostante molti esperti legali, storici ed esperti di genocidio come Raz Segal, Marion Kaplan, Victoria Sanford, Ronald Suny e Francesca Albanese usassero quel termine. Altri eminenti esperti, come Omer Bartov, ritengono che la situazione potrebbe evolvere in un genocidio.

Sappiamo anche che la più alta corte del mondo, la Corte internazionale di giustizia, si è pronunciata a gennaio su diverse misure provvisorie affermando che è effettivamente plausibile che i diritti dei palestinesi secondo la Convenzione sul genocidio siano stati violati o, in altre parole, che è plausibile che ciò che sta accadendo a Gaza sia un genocidio.

Penso che respingere il termine genocidio per descrivere le azioni di Israele in quanto «privo di fondamento» sia un grave errore. Come accademici, il nostro ruolo è esaminare i fatti e trarre conclusioni, non rifiutare ideologicamente i termini. Anche se si potrebbe concludere che non si tratti in realtà di un genocidio, non è infondato definirlo così, date le prove e i tanti esperti che sono giunti alla stessa conclusione. Respingerlo come oltraggioso senza considerare i fatti e le argomentazioni contraddice il nostro impegno accademico nei confronti della verità.

Anche il governo tedesco respinge le accuse di genocidio e sostiene Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia. Dal 7 ottobre, un certo numero di palestinesi e israeliani critici nei confronti della condotta bellica di Israele hanno visto le loro voci messe a tacere o addirittura gli è stato vietato di entrare nel paese. Considerando la tua opinione sulla guerra, pensi che il governo tedesco stia traendo lezioni sbagliate dalla storia?

Sì, la Germania sta traendo lezioni sbagliate dalla storia. Il governo tedesco e la maggior parte dei media tedeschi sono prevenuti, sbagliati e ipocriti quando si tratta dei crimini di Israele contro i palestinesi. Questa posizione non è nuova. La Germania sostiene Israele e la sua narrativa grazie all’idea di una Staatsräson tedesca, o ragion di Stato, che lega la legittimità dello Stato al suo sostegno a Israele. Non è solo che non vogliono vedere cosa sta succedendo. Si rifiutano attivamente di vedere! Questo sostegno incrollabile, visto come una carta bianca per le azioni di Israele, compreso quello che considero un genocidio, non è positivo per Israele.

La Germania, il paese che ha commesso l’Olocausto sotto il dominio nazista, dovrebbe difendere i valori universali. Il «Mai più» deve valere per tutti. Quasi il 30% delle munizioni e delle armi importate da Israele provengono dalla Germania. Ciò non aiuta né i palestinesi né gli israeliani.

La questione della repressione della libertà di parola da parte della Germania è anteriore all’attuale guerra, poiché lo Stato tedesco considera antisemita quasi ogni critica rivolta a Israele, comprese quelle espresse dagli ebrei. I media e il governo tedeschi ignorano deliberatamente la realtà di Israele e Palestina, consentendo a Israele di commettere crimini e portare avanti le sue politiche di apartheid, annessione, occupazione e insediamento. Non credo che le scelte della Germania aiutino Israele. Al contrario, spingono ulteriormente la società israeliana verso un abisso dal quale potrebbe non essere in grado di riprendersi.

Il ministro delle finanze israeliano, Bezalel Smotrich, ha annunciato di voler ridurre in macerie le città e i villaggi della Cisgiordania, come la Striscia di Gaza. Mentre la maggior parte dell’attenzione del mondo è focalizzata su Gaza, anche la situazione in Cisgiordania sta andando fuori controllo, con crescenti attacchi contro la popolazione palestinese e iniziative del governo israeliano per espandere gli insediamenti lì. Si tratta di una strategia unificata?

Il governo, molti coloni e i loro sostenitori considerano la guerra un’opportunità per espandere gli insediamenti, impossessarsi della terra e scacciare i palestinesi. Dall’inizio della guerra, più di cinquecento palestinesi nei territori occupati sono stati uccisi dall’esercito e dai coloni israeliani.

Faccio parte di un gruppo israeliano chiamato Jordan Valley Activists che cerca di proteggere le comunità di pastori palestinesi e di aiutarle a mantenere la loro terra e i loro mezzi di sussistenza. Ho assistito in prima persona alla violenza dei coloni. Proprio di recente si è verificato un terribile incidente in cui coloni, apparentemente provenienti da Shadmot Mehola, hanno attaccato pastori e agricoltori palestinesi, rubando un’auto, rompendone tutti i finestrini, colpendo e ferendo le persone, terrorizzandole e molestandole costantemente. È evidente che i coloni stanno approfittando della guerra per espandere il loro territorio, espellere i palestinesi dalla loro terra, in particolare nella Zona C della Cisgiordania, e «giudaizzare» il territorio.

In molti casi, l’esercito e la polizia sostengono le azioni dei coloni, attivamente o passivamente, deliberatamente non intervenendo né ritenendo responsabili i colpevoli. La polizia non è al servizio dello stato di diritto ma dei coloni senza legge. Pertanto, gli aggressori non devono quasi mai presentarsi in tribunale. Gli Stati uniti e altri paesi alla fine hanno imposto sanzioni a quei coloni perché avevano capito che il sistema legale israeliano raramente li avrebbe ritenuti responsabili.

Nel 2017, Bezalel Smotrich ha pubblicato una cosa chiamata Piano decisivo, che offriva ai palestinesi due opzioni: accettare di vivere sotto l’apartheid o andarsene. Di fatto ha minacciato di annientare i palestinesi che decidessero di opporsi a queste due opzioni. Questo piano, ideato da politici di alto rango, gode di un ampio sostegno. Ho il sospetto che, anche se non adottato formalmente dall’attuale governo, il suo spirito ne determina la politica.

L’alto sostegno alla guerra tra la popolazione israeliana è evidenziato da quasi tutti i dati dei sondaggi disponibili, ma allo stesso tempo crescono anche le proteste per il cessate il fuoco e le dimissioni di Netanyahu. L’umore in Israele sta cominciando a cambiare?

L’umore sta cambiando poco a poco, poiché molti capiscono che l’unico modo per riportare indietro gli ostaggi è raggiungere un cessate il fuoco permanente. Alcuni inoltre non vedono più che obiettivi persegua la guerra. Tuttavia, la maggioranza continua a sostenere la guerra ed è senza dubbio completamente cieca nei confronti dei crimini che Israele sta commettendo a Gaza.

Una cosa positiva che voglio sottolineare è che stanno crescendo anche organizzazioni come i Jordan Valley Activists, di cui ho parlato prima, o movimenti di base come Standing Together, sebbene si tratti di gruppi molto piccoli rispetto al resto della società. Un’azione degna di nota di Standing Together ha riguardato la scorta di convogli di aiuti umanitari, che venivano bloccati e vandalizzati da coloni ed esponenti della destra, a Gaza. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha addirittura ordinato alla polizia di non proteggere i convogli, permettendo che si verificassero atti di vandalismo. Gli attivisti di Standing Together hanno protetto i camion finché non hanno raggiunto il valico di frontiera di Gaza.

Questo movimento è composto principalmente da ebrei e arabi provenienti dai confini del 1948, che protestano contro la guerra e chiedono la liberazione degli ostaggi, perché capiscono che la guerra non ci porterà da nessuna parte e che entrambe le parti stanno effettivamente pagando un prezzo enorme. Tuttavia, queste voci sono pesantemente represse dal governo, dalla polizia e persino dai funzionari locali, come il sindaco di Haifa, Yona Yahav, che ha affermato che manifestazioni contro la guerra non dovrebbero aver luogo nella sua città, Haifa.

Che futuro vedi per Israele e Palestina dopo la guerra? Quali saranno i suoi effetti a lungo termine?

Da questa guerra non verrà nulla di buono e non vedo alcuna via d’uscita da questo vicolo cieco. Ho vissuto tutta la mia vita a Gerusalemme come attivista e accademico, nella speranza di un cambiamento. In un libro che ho curato con il mio amico e collega professor Bashir Bashir, The Holocaust and the Nakba: A New Grammar of Trauma and History, e in altri articoli che abbiamo scritto, abbiamo immaginato una soluzione binazionale egualitaria. Questa soluzione enfatizza la parità di diritti per tutti, sia collettivi che individuali. Ma ora sembra più remota della fantascienza.

La soluzione dei due Stati è solo una cortina di fumo utilizzata dalla comunità internazionale, poiché non esiste un percorso realistico per raggiungere una soluzione praticabile a due Stati che garantisca ai palestinesi i loro diritti. L’espansione degli insediamenti non ha lasciato loro spazio e l’idea di due Stati uguali non è nemmeno presa in considerazione. Anche le proposte più progressiste della sinistra israeliana e della comunità internazionale non raggiungono il livello minimo di dignità, sovranità e indipendenza che i palestinesi possono accettare. All’interno della società israeliana, il razzismo, la violenza, il militarismo e un’attenzione narcisistica alla sola sofferenza israeliana sono talmente prevalenti che non c’è quasi alcun sostegno pubblico per qualsiasi soluzione diversa dall’uso della forza e delle uccisioni.

Lo status quo è insostenibile e continuerà a portare a ulteriore violenza. Israele, che fin dall’inizio non è mai stata una democrazia completa, sta perdendo anche le sue parziali caratteristiche democratiche. Oggi ci sono più o meno 7,5 milioni di ebrei e 7,5 milioni di palestinesi tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo sotto il controllo israeliano. I primi godono di diritti completi mentre i secondi non godono di alcun diritto o di diritti parziali. La società ebraica israeliana sta diventando sempre più militante, espansionista e autoritaria. La Germania, gli Stati uniti e la maggior parte dei paesi occidentali hanno contribuito in modo significativo all’attuale vicolo cieco. Sono molto pessimista e depresso riguardo al futuro. Lo dico con grande tristezza perché Israele è la mia società e la mia casa.

Tuttavia, la storia ci ha mostrato che il futuro può essere imprevedibile e forse le cose cambieranno in meglio, ma ciò richiede un’enorme pressione internazionale. Questa idea astratta è la mia unica speranza.

*Amos Goldberg è professore associato presso il Dipartimento di Storia ebraica ed Ebraismo contemporaneo dell’Università Ebraica di Gerusalemme.

**Elias Feroz è uno scrittore freelance. Tra le altre cose, si occupa di razzismo, antisemitismo e islamofobia, politica e cultura della memoria. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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