di Francesco Battistini
(Riprendiamo da Il Corriere della Sera questa intervista, pubblicata qualche giorno fa a questo LINK)
Suad Amiry, 73 anni, architetta prestata alla letteratura, ha partecipato alla delegazione che a Washington negoziò la pace di Oslo
DAL NOSTRO INVIATO
RAMALLAH (CISGIORDANIA) – E se l’Iran attacca di nuovo? Come la prendono i palestinesi?
«Direi che ormai la maggioranza dei giovani palestinesi sia a favore di chiunque dia loro una mano. Chiunque va bene, pur di por fine a una delle occupazioni più brutali della storia. Va bene l’Iran, va bene Nasrallah, vanno bene gli Hezbollah…».
Ma non è una gran scelta…
«È chiaro che sarebbe stato meglio potersi mettere al fianco dell’Europa. Ma questo se l’Europa avesse dato ai palestinesi una mano, per ottenere uno Stato indipendente. L’ha fatto? No. La cosa più preoccupante è come Netanyahu, nel frattempo sia riuscito a renderci partecipi d’un “asse del male”, a trasformarci tutti quanti in amici degli iraniani. Come se prima non ci fosse mai stata un’occupazione che dura da più di 58 anni! Come se la Nakba del 1948, la Catastrofe palestinese, non fosse mai accaduta!».
Dalle finestre della sua casa d’Al Bira, sulle colline di Ramallah, una delle scrittrici più lette della Palestina non vede più un gran panorama. Se allunga su Gaza, le si stringe il cuore: «Non vedo più un futuro senza Hamas, nella Striscia…». Se osserva i palestinesi che la circondano, c’è rabbia e poco altro: «Quello che sta accadendo oggi, è un dramma persino peggiore della Nakba…». Suad Amiry, 73 anni, architetta prestata alla letteratura, un tempo lontano nella delegazione che a Washington negoziò la pace di Oslo, non ha perso lo sguardo disincantato che le fece raccontare il dramma del suo popolo in Sharon e mia suocera (Feltrinelli). Anche l’ultimo romanzo, Mother of Strangers, uscito un anno prima del 7 ottobre, è la storia d’uno sradicamento che dura da quasi ottant’anni.
La cacciata da Israele dell’Unrwa, l’agenzia Onu che s’occupa da sempre dei profughi palestinesi, quanto influirà su questa sensazione d’annullamento?
«È il colpo più grande. I rifugiati sono l’80% dei palestinesi di Gaza e il 20% di quelli in Cisgiordania. Mi sono convinta che ormai la guerra a Gaza non sia solo una guerra contro Hamas, ma contro tutti i rifugiati del 1948. Questo massacro senza precedenti ha a che fare con quel che io chiamo il ‘primo peccato’ degl’israeliani, quando il 90% dei palestinesi fu cacciato da terre che divennero Israele. Allora, speravano di liberarsi dei profughi una volta per tutte. Ma Israele, 75 anni dopo, si ritrova ad affogare nel dato demografico dei palestinesi, che sono aumentati a dismisura e diventati una grande ossessione, perché continuano a ricordare agl’israeliani il ‘primo peccato’. Un peccato che non scomparirà, finché ci sarà anche un solo rifugiato: la mia famiglia, per dire, è fra questi. È da tutto questo che nasce l’attacco all’Unrwa, l’unica a fornire istruzione, saluto soccorso nei campi profughi di Jenin, di Tulkarem, di Balata. La domanda è: chi adesso s’occuperà di questi campi?».
Ma perché i Paesi arabi e islamici più ricchi, dai sauditi agli Emirati, dall’Iran alla Turchia, in realtà non ospitano nemmeno un rifugiato palestinese?
«Per le stesse ragioni per cui l’Europa e l’Italia non accettano più di sostenere gli sforzi umanitari».
Che fine ha fatto l’Autorità palestinese? In quest’anno, Abu Mazen è scomparso dai radar del dibattito internazionale…
«Dopo il 7 ottobre, nella Cisgiordania governata dal pacifico presidente Abu Mazen, sono stati uccisi 800 palestinesi e ne sono stati arrestati 10mila. Ci condannano sia se optiamo per la lotta armata, sia se usiamo mezzi pacifici: intanto, c’è Israele che ci confisca sempre più terre. Non dimentichi che Abu Mazen è sempre stato sottoposto a pressioni internazionali enormi, perché non formasse un governo d’unità con Hamas, ma contemporaneamente non ha mai potuto governare Gaza senza Hamas».
Se fosse vivo, che cosa penserebbe Arafat del 7 ottobre?
«Non lo so. Arafat era molto imprevedibile nelle sue posizioni. Teneva in una mano la pistola del combattente e nell’altra il ramo d’ulivo. Nel 1975, quando parlò all’Onu, implorò il mondo: ‘Non lasciate che il ramo d’ulivo cada dalla mia mano’. Mi sembra che Israele e tutto l’Occidente, quel ramoscello, l’abbiano fatto a pezzi».
Dire che questa guerra non è cominciata col 7 ottobre, come fanno anche i più moderati dei palestinesi, non è un modo per giustificare quei massacri orribili?
«No, affatto. È necessario contestualizzare gli eventi e ciò che accade quando si sottomette un altro popolo per 75 anni, s’applica alla vita quotidiana un regime di apartheid. Un occupante prende la vostra terra, i vostri villaggi, le vostre case e ci vive normalmente, mentre i profughi vivono ammassati nei campi a pochi chilometri da lì. Se non si capisce questo, tutto quel che succede sembra sempre e solo l’ennesimo pogrom contro il popolo ebraico. L’ho scritto nel mio romanzo Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea: se non capiamo quale tremendo trauma sia stato il 1948 per i palestinesi, se non capiamo mai il dolore dell’altro, non risolveremo mai la questione».
Israele ha reagito in maniera sproporzionata a un attacco feroce: è sufficiente per chiamarlo genocidio?
«Amano così tanto Israele da permettere che diventi una macchina per uccidere? Il genocidio non è una posizione politica, è un termine giuridico: ‘Un atto commesso con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso’, lo definisce la giustizia internazionale. Non è quel che accade? Saranno i tribunali – non lei e nemmeno io – a decidere che cos’è stato tutto questo».
Che cosa pensa degli scrittori americani ed europei che invitano a boicottare la cultura israeliana? La figlia di Amos Oz ha detto che è un’idea stupida…
«Molte altre buone idee sono fallite. Perché non provare con una stupida? Mi sembra che la figlia di Amos Oz non ricordi come sia stato proprio il boicottaggio internazionale, compreso quello culturale, a far finire l’apartheid in Sudafrica. In ogni caso, quell’appello non chiede un boicottaggio della cultura israeliana senza distinzioni, ma di quegli intellettuali e di quelle istituzioni che sono complici di quanto accade».
Il problema però non è solo Hamas, anche in molti raduni a Ramallah s’invoca una sola Palestina dal Giordano al mare: siamo ancora al desiderio di cancellare Israele?
«Ecco un buon esempio di doppio standard del mondo occidentale. Questo slogan è usato dai palestinesi che credono nella soluzione d’uno Stato unico, in cui palestinesi ed ebrei abbiano gli stessi diritti in uno Stato che va dal fiume al mare. Significa che vogliono cancellare l’apartheid. Mi dice che cosa c’è di sbagliato? O è a favore della supremazia ebraica? Trovo bizzarro che lei si concentri su questo slogan, ma non dica che è Israele ad avere uno Stato ebraico d’apartheid che va dal fiume al mare».
Forse perché al momento non è così…
«Quando Netanyahu mostra all’Onu una mappa del Grande Israele che include Cisgiordania, Gerusalemme, Gaza e la Giordania, nessuno dice che sta cercando di cancellare i palestinesi! È ora che Israele scelga un solo Stato in cui tutti hanno gli stessi diritti, oppure accetti la soluzione dei due Stati. Deve cambiare: non può continuare ad avere la botte piena e la moglie ubriaca».
Ma lei stessa ha detto, mesi fa, che la soluzione dei Due Popoli e Due Stati non è più una possibilità…
«Io sono sempre per una soluzione politica, che sia d’uno o di due Stati. In realtà preferisco la seconda ipotesi, considerando quanto la società israeliana sia diventata estremista e razzista».
Se vince Trump, il governo israeliano esulta. E a lei toccherà scrivere «Netanyahu e mia suocera»…
«Mentre Sharon e mia suocera mi hanno ispirato a scrivere quel libro, le atrocità senza precedenti commesse da Netanyahu mi hanno bloccato. Non ne sarei capace. In qualche modo, sento che nessuna parola può esprimere il dolore di questo genocidio trasmesso da quasi 400 giorni su tutti i social media. Ci scorre davanti agli occhi e nessuno riesce, nessuno vuole fermarlo».