La “piccola Gaza” – Nel nord della West Bank si concentra l’azione dell’esercito di occupazione: 1.024 incursioni dall’ottobr 2023 e centinaia di uccisi. Come il 13enne che portava il pane alla città sotto assedio… (articolo da Il Fatto uotidiano clicca )
di Maddalena Oliva
Cadono. A centinaia. I datteri ormai baciano la polvere e stanno marcendo a terra. Per andare a scuola – manca solo un giorno all’inizio – la strada è piena pienissima di questi frutti amaranto. Non è una vera strada, bisogna arrampicarsi sui massi e fare spazio tra i rami, ma è dalle elementari che io e mio cugino Abdullah facciamo avanti e indietro, fianco a fianco, fra gare di sputo, TikTok e storie da inventare. “L’aria è troppo pesante per sognare – mi diceva Baba – fai fiorire la vita che c’è in te: studia e non smettere di pregare”. Lui, papà, non c’è più. A mamma e alle quattro sorelle bado io. Ho 13 anni.
Sono morto il primo settembre 2024. Io e Abud stavamo scappando. Alla vista dei soldati, per colpa di una pietruzza sotto la ciabatta, non sono riuscito a far ripartire la vespa. Ho perso l’equilibrio. Siamo caduti entrambi. Correvo, correvo. Gli occhi mi pungevano. I polmoni bruciavano. All’addome, un crampo. “Il paziente è stato portato d’urgenza all’ospedale Ibn Sina. Non presenta segni di vita”: è scritto sul referto consegnato a mia madre. “Il paziente è morto per effetto di esposizione a colpi di armi da fuoco da parte dell’Esercito israeliano di occupazione: presenta ferite alla testa, al collo, al torace, alla spalla sinistra, alla schiena”.
Quella mattina non avevo fatto colazione. Stavo giocando con le galline, fuori. Mia madre mi cercava. Le dissi che andavo a comperare del pane appena sfornato con un po’ di mana’ish, la nostra pizza condita con olio e tanto timo, ma non che volessi portarlo a Jenin, assieme ad Abud. La città e il campo profughi erano al quarto giorno di assedio. In un attimo si capovolse il mondo. Ero a terra. Sentivo rumori attorno. Un soldato mi tastava il collo, per controllare le pulsazioni. Sapevo che stava già piangendo. Lui? No, lui aveva già ucciso e il suo cuore era di tenebra ormai. Io? Io no, ero da qualche parte lì, tra la vita e la morte. Era mia madre, Muna, a disperarsi. “Ibni! Ibni! Figlio mio”, gridava. Picchiava la testa contro il muro, tenendo il telefono vicino all’orecchio. Mi aveva chiamato sette volte. Io non potevo più risponderle. Il cellulare lo aveva in mano il soldato e, all’ottava telefonata, lo spense. L’anima di mia madre stava morendo in quel momento. Adesso.
Se c’è un dio, pensavo guardando Muna, la mamma di Mohammad, quel suo lamento lo avrà sentito. La donna tira fuori da due buste intonse uno zaino di Spider-Man e una tuta Adidas, nuova, con un paio di scarpe nere che Mohammad avrebbe indossato il primo giorno di scuola. Prima di offrirmi datteri e tè, stacca dal muro un quadro-ricordo: ci sono matite colorate e biglie, una pistola-giocattolo e il rosario, le pietre insanguinate su cui è stato ritrovato il corpo del figlio e i proiettili che l’hanno ucciso. Kafr Dan è un piccolo centro a sei chilometri da Jenin, in quell’area A definita dagli accordi di Oslo e indicata come “pericolosa” sui continui cartelli rossi che, arrivando da sud, si incontrano al check-point Deir Sharaf. Per trovare la casa di Mohammad, cerco la sua foto scartando con gli occhi decine e decine di gigantografie di giovanissimi shahid, appese sui muri crivellati di colpi, sui pali in mezzo alle rotonde, sulle insegne attaccate alle case, come fossero negozi. C’è una generazione perduta che ti scruta per ogni dove, tra bandiere di Hamas e della Jihad islamica che sfidano il vento.
L’ultima incursione dell’Idf è conclusa da 36 ore. Nove palestinesi uccisi, di cui tre terroristi. Siamo nella roccaforte della “resistenza” più dura, quella della Brigata Jenin. Qui è nato Zakaria Zubeidi, la “primula rossa” della Seconda Intifada. E qui l’esercito israeliano concentra le operazioni più imponenti di tutta la West Bank, l’area per la quale il neoministro della Difesa Israel Katz ha invocato il “trattamento Gaza”. “Da luglio 2023, prima ancora del 7 ottobre, i raid dell’esercito si sono intensificati”, spiega Bashir Matahen, direttore dell’Ufficio Relazioni pubbliche della Municipalità di Jenin. “Parliamo di 1.024 incursioni, molte con target strade, edifici, reti elettriche, sistema fognario. I danni stimati, al ribasso, ammontano a 41 milioni di dollari. L’obiettivo è la punizione collettiva, è farci andare via: più di 420 famiglie hanno già perso le loro case, distrutte…”.
Se prima le forze israeliane irrompevano 1-2 volte al mese, adesso è 1-2 volte alla settimana. I soldati si muovono dalla base israeliana di Afula, a mezz’ora da qui, attraverso il valico di Jamala. Possono tornare sempre, continuamente. Forse stasera. Forse domani. L’attesa è parte della guerra psicologica. Arrivano con i bulldozer D9. I carri armati. E poi i droni, con il loro ronzio. Si sentono i movimenti veloci di chi si rintana, i bambini che piangono, le donne che pregano. Si vede il fuoco che appiccano per far uscire come topi i terroristi, o presunti tali, da una, due, tre case. Si alza l’odore di carne bruciata. È in una di queste incursioni, la più dura dalla Seconda Intifada – “Summer camps Operation”, l’ha chiamata l’Idf – che sono stati ammazzati Mohammad e suo cugino Abud: per aver deciso, un’incauta mattina di settembre, di portare del pane alla comunità sotto assedio. Non sono “danni collaterali”. Sono morti innocenti tra gli oltre 790 uccisi nella West Bank dal 7 ottobre a oggi (10 volte più dei 14 anni precedenti; 5.199 i feriti, fonte Onu): almeno 169 bambini, nell’80% dei casi sparati alla testa o al torace. Uno su tre veniva da Jenin. È il “fuoco libero”, ovvero le nuove regole di ingaggio dell’esercito israeliano in Cisgiordania: sparare ai palestinesi in fuga, pure se disarmati o con pietre in mano, colpire chiunque rappresenti una minaccia.
“La politica dell’Idf verso i palestinesi è sempre stata questa – spiega Shai Parnes di B’Tselem, storica associazione israeliana che si occupa di diritti umani nei Territori occupati – ma dal 7 ottobre sta succedendo qualcosa che si distacca dal passato. Abbiamo video di crimini di guerra non solo a Gaza, anche in Cisgiordania: è inimmaginabile quanto sta avvenendo”. “L’esercito pensa di piegare così il sostegno alla resistenza. I gruppi armati qui ci sono, ma non hanno una forza paragonabile a quella dell’Idf”, racconta Farah Natoor, fondatrice dell’associazione Not to forget, che ha sede proprio nel campo profughi di Jenin. “Siamo nati per non dimenticare l’orrore dell’invasione del 2002, quella di Sharon, ma oggi è peggio. Lavoriamo soprattutto con i bambini: da noi seguono la scuola e i corsi su come riconoscere le bombe… Ogni volta che scatta la sirena mi chiedo: chi perderemo questa volta?”.
La sopportazione, negli anni, è diventata quasi un germe sotto pelle per questo popolo. Il prezzo pagato, in cambio, è stato il fondamentalismo, l’esaltazione del martirio e così – lo descrive Susan Abulhawa, nel suo bellissimo Ogni mattina a Jenin – “l’annientamento della dolce vulnerabilità”. A volte però il dolore riaffiora. Anche in un luogo, come questo, dove la morte finisce per assomigliare alla vita e la vita alla morte. Il poeta palestinese Mahmoud Darwish scriveva che “quando si è assediati il tempo diventa spazio. Pietrificato nella sua eternità. E lo spazio diventa tempo. Che ha fallito il suo ieri e il suo domani”. Nel campo profughi – una città nella città che ospita 15 mila dei 55 mila palestinesi di Jenin, creata nel 1951, dopo la Nakba – è tornata la calma. Sulla strada, o meglio in mezzo a cumuli di terra bruciata, un cimitero improvvisato di shahid. Ragazzi nati nel 2007, 2008. E morti nel 2024. È un continuo di madri e mogli, vestite a lutto. E di buche scavate. L’ultima è per Qusai Abed, uno dei “martiri” caduti il 20 novembre negli scontri con l’Idf. A sua madre, Shadia, non è stato restituito il corpo e non si sa se lo riavrà mai. Qusai era un operaio, 20 anni. Anche lui di Kafr Dan. È morto, colpito alla schiena, tra gli ulivi che si ergono come mani sulle colline su cui era scappato. “Io conosco ogni albero, i soldati no”, pensava. Ma poi nemmeno lui ha saputo farsi trovare, nella notte, da suo padre che era salito a salvarlo. La vita sa essere inaffidabile. È morto così, al telefono con la madre: recitando la shahadah che lo avrebbe portato in paradiso.
“Non mangia datteri chi semina datteri”, dice un vecchio proverbio arabo che il padre di Mohammad ripeteva sempre. Lui, che in questa terra ci arrivò da rifugiato e che per tutta la vita sognò di tornare nella sua Haifa, dal 1948 città di un altro Stato, di sicuro i datteri non li ha mangiati. E anche Mohammad, suo figlio – morto sparato, a 13 anni – non ne mangerà più. Di lui non resta che polvere mista a pietre, insanguinate. “Veniamo dalla terra e quando moriamo a lei torniamo,” diceva il suo Baba. “La Palestina ci possiede e noi apparteniamo a lei”. Ma quelli che erano rimasti vivi restarono prigionieri. A Jenin.
1 – Continua
Ha collaborato Sarah Abu Alrob