di Farid Adly
Le bugie – come si dice – hanno le gambe corte. La nota giornalista britannica Clarissa Ward l’ha fatta grossa per l’ennesima volta. Vi raccontiamo tutte le cose che non tornano nel reportage della giornalista britannica dal carcere di Saydanaya, alle porte di Damasco, trasmesso il 13 dicembre. Vi anticipiamo che è un fake.
https://edition.cnn.com/2024/12/11/world/video/syrian-prisoner-freed-clarissa-ward-digvid
Nel servizio, la nota giornalista britannica Clarissa Ward è accompagnata da un uomo armato e insieme aprono una cella di una prigione a Damasco, dove al suo interno c’era un deteneuto che racconta di trovarsi lì da mesi. Ma diversi dettagli non tornano.
L’uomo dentro la cella viene presentato come “Adel Gharbal” di Homs. Dice di essere stato arrestato tre mesi prima, inizialmente trattenuto in una prigione senza nome prima di essere trasferito nel luogo mostrato nel video. La scena presenta il fatto come la liberazione di un prigioniero civile siriano per mano dalla stessa gioranlista, che lo tranquillizza e gli offre da bere.
L’uomo liberato dalla cella chiusa, era nascosto sotto una coperta, ha alzato le mani, in una scena non credibile. Ha sostenuto di non aver visto la luce del sole per tre mesi. Ma la sua reazione alla luce non sembra corrispondere a quella di una persona che ha vissuto settimane al buio: non ha sussultato né sbattuto le palpebre nemmeno quando ha guardato il cielo, felice di aver ritrovato la libertà. Per rendere il tutto emozionante, all’uomo viene offerto da mangiare e solo a quel punto l’accompagnator armato gli comunica che la Siria è stata liberata da Assad, che il dittatore è fuggito, lui appare scioccato. Gharbal risultava pulito, curato e fisicamente sano, senza ferite visibili o segni di tortura: un ritratto incongruo con il racconto farlocco presentato nello “scoop”, di qualcuno presumibilmente tenuto in isolamento al buio per tre mesi. Ward ha presentato quel momento della liberazione del prigioniero come «uno dei più straordinari» a cui avesse assistito nella sua lunga carriera da inviata di guerra. Sic!
Dopo che la giornalista ha postato su X la sua storia linkando il srvizio (clicca), molti lettori siriani hanno messo in dubbio il racconto. Cittadini di Homs, la città da cui il prigioniero ha detto di provenire, hanno riconosciuto la persona e svelato il suo vero nome.
Così il team di Verify-Sy ha indagato e ha scoperto chi si cela dietro all’identità del prigioniero: un membro dei servizi di sicurezza del regime degli Assad.
Il team Verify-Sy ha cercato nei registri pubblici il nome “Adel Gharbal” per verificare le circostanze e la durata della sua detenzione, ma non ha trovato risultati. Gharbal sosteneva di provenire da Homs e il dialetto parlato supportava questa affermazione. Così è saltato fuori il suo vero nome: Salama Mohammad Salama.
Salama, noto come “Abu Hamza”, è un primo tenente dell’intelligence dell’aeronautica militare siriana, noto per le sue attività a Homs. I residenti del quartiere di Al-Bayyada lo hanno identificato come frequentemente di stanza a un posto di blocco all’ingresso occidentale dell’area, tristemente nota per i suoi abusi. Abu Hamza era coinvolto in furti, estorsioni e avrebbe costretto i residenti a diventare informatori.
Verify-Sy spiega che Salama ha partecipato a operazioni militari su diversi fronti a Homs nel 2014, ha ucciso civili ed è stato responsabile della detenzione e tortura di numerosi giovani uomini nella città senza motivo o con accuse inventate. Molti sono stati presi di mira semplicemente per essersi rifiutati di pagare tangenti o di collaborare. Questi dettagli sono stati corroborati dalle famiglie delle vittime e dagli ex detenuti che hanno parlato con Verify-Sy. Il team ha anche scoperto che ha disattivato i suoi account sui social media e cambiato il suo numero di telefono, presumibilmente per cancellare le prove del suo coinvolgimento in attività armate e crimini di guerra.(CLICCA)
Non è la prima volta . Un’altra vicenda con protagonista Ward ha fatto discutere. Era diventato virale un video della Cnn in cui la reporter era sdraiata per terra, raccontando che si fosse messa al riparo perché era in corso un bombardamento al confine della Striscia di Gaza. Il video è stato poi smentito.
In un’altra corrispondenza dall’Afghanistan, dopo la fuga rocambolesca di militari USA, si è messa l’hijab per fare il servizio, per avvalorare che la trasmissione avveniva effettivamente da Kabul. In una corrispondenza dal Sudan ha raccontato che era stata rapita da milizie armate non ben idetificate per ben due giorni. Ci dobbiamo credere?
La realtà è che la CNN è arrivata a Saydanaya due giorni dopo le TV arabe Al-Jazra ed Al-Arabiya e bisognava ad ogni caso proporre agli spettatori una storia forte. Il carcere era stato liberato tre giorni prima e le celle erano tutte vuote, come si vedeva anche nel servizio dall’emittenta statunitense. Possiamo – senza timore di allontanarci dalla verità – avanzare delle domande retoriche: la giornalista ha inventato tutto, per tentare di coprire il ritardo con una storia forte? Una rappresentazione teatrale presentata come verità in diretta, per emozionare il pubblico televisivo?
Una misera vicenda che non fa bene al giornalismo. La CNN non si è scusata ed ha smplicemente scritto che il personaggio ritratto nel servizio ha raccontato una bugia presentandosi con un altro nome e che sono in corso degli approfonndimenti, che è stata avviata un’indagine.