Sabrina Provenzani intervista Amos Goldberg, studioso dell’olocausto.
(da Il Fatto Quotidiano)

“Gli schemi sono innegabili: dalle uccisioni alla fame. Il senso di colpa per l’Olocausto rende tutti complici. Così Israele la fa franca”

“Quello che Israele sta commettendo a Gaza è un genocidio”. Amos Goldberg è professore di Storia dell’Olocausto presso il Dipartimento di Storia Ebraica e Studi Contemporanei dell’Università Ebraica di Gerusalemme. “Mi sono avvicinato allo studio del genocidio perché credo che, studiandolo, possiamo comprendere meglio i pericoli e le minacce che affrontiamo come individui, società e culture. Mettiamo da parte l’Olocausto per un momento: quasi sempre i genocidi, per chi li perpetra, sono reazioni di autodifesa rispetto a una minaccia reale o immaginaria. Ora, ed è molto importante sottolinearlo: il 7 ottobre è stata una catastrofe. Un trauma profondo, un crimine atroce, che ha colpito persone a me molto vicine. Siamo rimasti tutti scioccati; l’abbiamo vissuta come una minaccia esistenziale. Non abbiamo nemmeno potuto elaborare il lutto. Ma anche quel crimine deve essere compreso – non giustificato – nel suo contesto: la Nakba, l’occupazione, l’assedio, l’apartheid… La risposta di Israele è stata completamente sproporzionata, e nessun crimine, per quanto atroce come quello del 7 ottobre, giustifica un genocidio.

Ma come rientra nella definizione di genocidio?

È un crimine difficile da identificare, ma la Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948 offre una definizione ampiamente accettata. Significa non semplicemente uccidere molte persone, ma avere l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, nazionale, razziale o religioso. E, lo indica il nome, include l’obbligo di prevenirlo. Quell’intento specifico di distruzione è chiaro a Gaza. Che, come società, non esiste più. Per mesi, in Israele, sono stati pronunciati pubblicamente, sui media e social media, incitamenti al genocidio, dall’alto al basso – da funzionari governativi, generali, celebrità dei media, rabbini, anche soldati. Questo è stato ampiamente documentato. Gli schemi di annientamento sono innegabili: uccisioni di massa, abbattimento della maggior parte delle abitazioni, distruzione sistematica di ospedali, infrastrutture, edifici religiosi, università e istituzioni; fame, cecchini che prendono di mira persone innocenti, bambini compresi. Queste azioni distruggono le condizioni che rendono possibile una società: annientano un collettivo mentre disumanizzano un’intera popolazione. 45 mila morti, oltre 100 mila feriti. Molti altri muoiono a causa della mancanza di strutture e forniture mediche. L’intera popolazione è sfollata. Gaza non esiste più.

Ma il termine genocidio porta con sé un peso enorme. La sua associazione con l’Olocausto continua a influenzare la Germania. Associare Israele, un paese in fondo nato dall’Olocausto, a un genocidio è indicibile per molti.

Sì, perché l’unico genocidio a cui pensiamo è l’Olocausto. Quindi, se non è Auschwitz o Treblinka, non è un genocidio… Gli europei, e soprattutto i tedeschi, provano sensi di colpa e la responsabilità di proteggere Israele, anche se è lo stato più potente del Medio Oriente. Può superare la soglia del crimine più orrendo del diritto internazionale, ma se lo critichi troppo vieni subito considerato antisemita. Prendiamo Tony Blinken, che nega il genocidio a Gaza e sostiene incondizionatamente Israele. Poco prima del 7 ottobre ha visitato il Museo dell’Olocausto a Washington per riconoscere come genocidio le atrocità commesse in Myanmar. Nella sua dichiarazione basta cambiare le parole con Gaza e Israele per ottenere un’analogia quasi perfetta. Quindi si può attingere autorità morale dall’Olocausto per parlare del genocidio in Myanmar, che fra l’altro è molto diverso dall’Olocausto, ma per Israele saltano tutte le regole. Capisco la delicatezza di parole come Olocausto e genocidio, la condivido pienamente. Dobbiamo essere cauti e sensibili. Ma dobbiamo anche prevenire i genocidi. Il rischio non è solo violare la memoria, destabilizzare identità o ferire sentimenti. Qui ci sono persone che vengono uccise ogni giorno a decine, bambini che muoiono di fame. Dobbiamo fermare questo. Perché studiamo l’Olocausto se non ne impariamo la lezione?

Lei sta ponendo la questione dell’eredità dell’Olocausto…

Yehuda Elkana era un prestigioso studioso israeliano, sopravvissuto all’Olocausto. Nel 1988, all’inizio della prima Intifada, scrisse: “Dall’Olocausto si possono trarre due lezioni: ‘mai più’ e ‘mai più a noi’. Israele ha deciso di imparare la seconda e, di conseguenza, di non ricordare. La Germania in teoria ha appreso il ‘mai più’ per tutti, ma più passa il tempo più sembra che intenda: ‘Mai più dobbiamo sentirci in colpa’.. Difendere Israele è diventato una parte importante della loro identità. Io apprezzo la loro cultura della memoria, ma non che sostengano un genocidio attuale in nome di un genocidio passato, più estremo, che hanno perpetrato. È diventata una scusa per essere razzisti: puoi essere razzista e sostenere un genocidio ma mantenere la superiorità morale giustificandoti con la ‘lotta contro l’antisemitismo’.

Ma Israele è davvero in una posizione eccezionale, per la sua storia e per la polarizzazione che attrae…

Sì, per molte ragioni. Ma anche perché gode di una protezione che nessun’altra nazione riceve. Ciò che è davvero eccezionale di Israele è che viola tutte le regole del diritto internazionale e la fa franca.

Lei è uno dei molti ebrei che lo denunciano… si sente ancora, in qualche modo, parte di quella realtà?

Non ‘in qualche modo’. Ne faccio completamente parte. È la mia società. Lo fanno a nome mio. Insegno all’università: sono le mie tasse. Siamo complici. Lasciamo che accada. Non lo abbiamo prevenuto. Ci ho messo sei mesi per capirlo: avrei dovuto capirlo prima. Protestare comporta un rischio personale, soprattutto per i palestinesi, anche quelli con cittadinanza israeliana. O tacciono del tutto o vengono arrestati, quindi in Israele sono quasi invisibili. Ma questo è il momento di insistere sulle voci palestinesi, anche se dicono verità molto dolorose per noi israeliani e anche per voi europei, anche voi complici. Il mio amico Alon Confino non smetteva mai di ricordarlo: uno degli imperativi morali e politici dell’Olocausto è che dobbiamo sempre ascoltare la voce delle vittime.

*Amos Goldberg insegna studi sull’Olocausto all’Università Ebraica di Gerusalemme. I suoi principali campi di ricerca sono la storia culturale degli ebrei nell’Olocausto, la storiografia dell’Olocausto e la memoria dell’Olocausto in un mondo globale.

è autore insieme a Bashir Bashir del libro: Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma

Prefazione di Elias Khoury
Postfazione di Jacqueline Rose

Traduzione dall’inglese di Alessandro Barchi e Pier Paolo Bastia
Revisione scientifica di Sarah Parenzo

Un libro pionieristico, in cui eminenti intellettuali arabi ed ebrei esaminano le interconnessioni storiche, politiche e culturali tra Olocausto e Nakba, senza offuscare le tante e profonde differenze. Una rassegna di scritti interdisciplinari per rompere un tabù, mettere in relazione esperienze traumatiche e ripensare modelli radicati di memoria. Un’opera che cerca una nuova grammatica storica e politica per aprire a un reciproco riconoscimento.

Formato: cm 14,8 x  21, pp. 464, euro 20

Collana: Altrimondi

I curatori: oltr al prof. Amos Goldberg,

Bashir Bashir è docente presso il dipartimento di sociologia, scienze politiche e comunicazione della Open University of Israel e ricercatore senior presso il Van Leer Jerusalem Institute. I suoi principali interessi di ricerca comprendono gli studi sul nazionalismo e la cittadinanza, il multiculturalismo, la teoria demo cratica e le politiche di riconciliazione.

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