Riprendiamo la rubrica Finestre sulle Rive Arabe, interrotta per due mesi a causa dell’impegno della redazione sulla drammatica situazione a Gaza in seguito all’aggressione israeliane. Ci scusiamo con i lettorə e con gli amici e le amiche di “RIVE ARABE”.
Segnaliamo per l’occasione la conferenza della prof. Jolanda Guardi, il 5 dicembre 2023 a Torino, alla libreria Trebisonada, sulla letteratura araba: il caso Palestina. Per tutte le info.
(La Redazione)
Tra sogno e incubo, alcuni aspetti della narrativa fantastica egiziana contemporanea
di Federica Pistono
La narrativa fantastica si basa, com’è noto, sulla rappresentazione di situazioni ed elementi immaginari che esulano dall’esperienza quotidiana, di contesti lontani dalla realtà comunemente sperimentata. L’aspetto che, più di ogni altro, può connotare una situazione come “fantastica” è l’intervento del soprannaturale e del meraviglioso, come la magia o un’invenzione tecnologica futuribile, ma non solo. All’interno del vasto ambito del fantastico si raggruppano molti generi differenti, quali l’orrore, la fantascienza, l’utopia e la distopia.
La narrazione fantastica offre allo scrittore l’occasione di modificare la realtà, di trasferire in un altro tempo o in un altro luogo l’analisi politica, economica e sociale delle condizioni di vita di un paese in un determinato periodo storico. La critica e l’autocritica scaturiscono spesso dall’incontro con l’altro, dalla constatazione di analogie e differenze. Il contatto con l’alterità può avvenire attraverso il viaggio, così come la creazione dell’utopia. La narrazione utopica prospetta un mondo migliore di quello in cui si vive, il disegno di una società perfetta, proiettata in una dimensione spazio-temporale indefinita, nella quale l’umanità dovrebbe poter realizzare un sistema di vita del tutto felice. Quando una società attraversa un momento storico particolarmente difficile, talvolta l’utopia si trasforma in distopia, e gli scrittori si dedicano a quel genere narrativo che, ispirandosi spesso alla fantascienza, prefigura situazioni, scenari, sistemi politico-sociali assolutamente indesiderabili, immaginando un futuro invivibile, in cui il genere umano può ritrovarsi in balia di un progresso tecnico disumanizzante, oppure schiacciato da un regime totalitario feroce, o falcidiato da epidemie letali.
Alla base di questo genere letterario è possibile identificare un timore ben preciso: quello della perdita di controllo sul proprio destino e dell’annientamento della propria volontà individuale.
La distopia è presente anche nella cultura araba, e in particolare in quella islamica, che appare a volte intrisa di un senso di incombente catastrofe caratteristico di molti autori che, a partire dalla rivolta della Mecca nel 1979 sino alle primavere arabe e oltre, rielaborano elementi della tradizione coranica, fondendoli con motivi tratti dalla cultura occidentale.
La narrativa distopica araba propone intrecci originali, con un fortunato abbinamento di eventi tratti dalla storia contemporanea e di temi estrapolati dalla narrativa apocalittica. L’Egitto si presenta come il paese arabo che più si è distinto nella produzione di letteratura fantastica e distopica, sia in termini di quantità che di popolarità.
Già negli anni Quaranta e Cinquanta, Tawfīq al-Hakīm scrive due opere che anticipano la distopia, guardando al futuro con notevole scetticismo. La prima opera, Fī sanat malyūn [1](Nell’anno del milione), è la storia di due scienziati che ormai vivono in un mondo ‘senza morte’, in cui l’esistenza è frutto di reazioni chimiche. Quando però un meteorite cade sulla Terra, i protagonisti cominciano a dubitare dell’infallibilità della scienza. Una trama per certi aspetti simile è quella di Riḥlah ilà al-ġad (Viaggio verso il domani),[2] in cui un medico e un ingegnere, convinti dell’importanza fondamentale della tecnologia, intraprendono un viaggio nello spazio. Quando, annoiati, tornano sulla Terra, trovano una società totalmente automatizzata e un’umanità alienata. L’esaltazione della tecnologia, nella visione dell’autore, anziché produrre il benessere auspicato, conduce dunque l’umanità verso il baratro.
Destinato a essere considerato una pietra miliare della narrativa distopica egiziana è il romanzo Utopia di Ahmed Khaled Tawfik, un libro scritto nel 2008 e pubblicato in italiano (Atmosphere Libri, 2019, traduzione di B. Benini), il cui successo di pubblico e critica si basa sulla scelta di tematiche a sfondo sociale e sull’accostamento di influssi della fantascienza occidentale, stile narrativo postmoderno e ambientazione specificamente egiziana.
La trama dell’opera, indicata come l’annuncio della primavera araba del 2011, racconta la società egiziana del prossimo futuro, un mondo imbevuto di disuguaglianza sociale, violenza estrema e inaudita crudeltà. Ambientato nel 2023, il romanzo dipinge una società consumistica giunta all’ultimo stadio, in cui si delinea un confronto tra due mondi: da un lato, sorgono le cittadelle fortificate in cui sono barricati i ricchi, occupati soltanto nella difesa dei propri privilegi sotto la protezione dei marines, dall’altro, si estende l’universo degli “Altri”, la massa dei poveri, dei diseredati, che vivono in condizioni di terribile miseria e di estremo degrado materiale e morale.
Una di queste comunità fortunate è Utopia, un’enclave da cui, a volte, i ricchi escono, per comportarsi, all’esterno, in modo a dir poco disumano: per esempio, diffondono droghe e farmaci atti a rendere sterili gli abitanti, unica soluzione ritenuta possibile per la crisi demografica, in una cruda ottica malthusiana.
La storia riporta alla mente la fantascienza sociale europea e americana del XX secolo, anche se la collocazione egiziana instaura un fondamentale collegamento con la realtà in cui è immerso il lettore arabo. Fra i motivi principali, spesso mutuati dalla narrativa postmoderna europea del Novecento, si affacciano quelli della decadenza della società dei consumi, dell’insensatezza della vita umana in tale società, della lenta ma inevitabile trasformazione dell’uomo in animale. L’originalità del romanzo risiede dall’abilità con cui Tawfiq rielabora questi elementi calandoli nel contesto culturale arabo, presentando l’Egitto del futuro come un’allegoria del paese alla vigilia della primavera araba.
Il valore essenziale dell’opera non si ravvisa dunque nell’impianto narrativo o nei temi affrontati, ma nella combinazione di tali fattori molteplici e disomogenei e nel loro inserimento nel background socio-culturale egiziano. Il testo si distingue per l’utilizzo e la rielaborazione di elementi estrapolati tanto dalla letteratura quanto dalla cultura di massa, per il linguaggio ricco di espressioni tratte dalla lingua inglese, per i frequenti riferimenti a opere sia letterarie (G. Orwell, H. Welles. E. A. Poe) sia cinematografiche (Platoon di O. Stone, Gangs of New York di M. Scorsese) sia teatrali (B. Brecht).
Tra i personaggi spicca ̔Alà, un abitante della cittadella in cui sono rinchiusi i ricchi, un ragazzo privo di morale e valori. Egli stesso racconta la sua giornata vuota e descrive le sue attività quotidiane, tra le quali figurano la pratica del sesso con la domestica, il ricorso massiccio alla droga, l’ascolto della musica, il continuo ozio. La noia spinge ̔Alà’ ad andare a caccia, un passatempo che consiste nell’inseguimento di uno degli Altri, residenti all’esterno della cittadella, e nell’amputazione di un arto, preso come souvenir. Durante una “battuta di caccia” in compagnia dell’amica Germinal, il ragazzo viene a trovarsi nei guai, ma è aiutato una coppia di Altri, che lo nasconde in casa finché non riuscirà a tornare, sano e salvo, verso Utopia. Questo accostamento tra due coppie di giovani è l’espediente narrativo indispensabile per rappresentare le classi sociali cui appartengono i protagonisti. ̔Alà è un personaggio negativo che, pur essendo stato soccorso dai due “poveri”, cerca di stuprare Safiyya, la ragazza appartenente al mondo dei diseredati. Quest’ultima si dimostra più forte e determinata dell’omologa Germinal, la quale non si era opposta all’idea del compagno di dedicarsi alla “caccia”. Dalla trama, tuttavia, emerge l’assenza di una classe sociale intermedia: esistono soltanto ricchi viziati e corrotti, da un lato, e poveri oppressi e incapaci di opporsi adeguatamente alla violenza gratuita, dall’altro. Una classe media di cui si nota la mancanza, e che non si formerà neppure dopo la primavera araba.
Se Utopia può definirsi senz’altro un romanzo distopico, al sottogenere dell’orrore appartiene un’altra opera di A. K. Tawfiq, Lo specchio di Satana (pubblicato da Atmosphere Libri nel 2022 nella traduzione di A. Kelany), un romanzo composto di sei racconti racchiusi in una struttura a cornice, che rievoca quella delle Mille e una notte. L’opera è tratta dalla serie di libri intitolata Mā warā’ al-Ṭabī ̔ ah (Ciò che c’è dietro la natura, cioè il soprannaturale), dalla quale è stata estrapolata la serie televisiva Paranormal, mandata in onda su Netflix nel 2020.
L’espediente letterario è classico: in una gelida notte d’inverno, otto personaggi sono isolati in una villa e ognuno di loro narra una “storia del terrore”, vissuta in precedenza. Ogni singolo episodio appare incentrato sulla paura, e sui diversi modi in cui i timori ancestrali possono diventare realtà: uno specchio stregato in cui si riflette qualcosa di inimmaginabile, insetti che si trasformano in creature da incubo, demoni sotto le mentite spoglie di esseri umani, animali che sono in grado di presagire catastrofi naturali, e poi, naturalmente, fantasmi e altre oscure presenze.
L’autore s’interroga dunque sulla paura, sulle circostanze che suscitano questa emozione atavica, sulle modalità con cui essa si manifesta, in un viaggio, forse un po’ ingenuo, nel terrore provocato da demoni, vampiri, spettri e altri esseri immaginari tratti dalla narrativa fantastica araba e occidentale.
I racconti sono contraddistinti da un’atmosfera di crescente inquietudine, che si placa soltanto al termine dell’episodio, quando l’autore torna alla cornice delle storie, alla rassicurante realtà quotidiana, in modo che al lettore sia concesso un istante di sollievo, prima di affrontare l’incubo successivo. La paura, quindi, in tutte le sue forme, risulta essere la vera protagonista dell’opera, il panico scatenato da qualcosa che, pur essendo invisibile, può palesarsi all’improvviso in modo imprevedibile e spaventoso.
Le voci narranti sono orchestrate, nella storia principale che funziona come cornice dei sei racconti, da un Maestro, il dottor Refaat Ismael, ematologo in pensione, uno dei personaggi più amati dai lettori egiziani di racconti fantastici dell’orrore, incaricato dall’autore di guidare i protagonisti alla condivisione dei propri turbamenti: lo sgomento suscitato dai riflessi dello specchio maledetto, il timore di chi visita le nostre case quando ne siamo assenti, l’ossessione di incontrare il diavolo, la preoccupazione che la persona alla quale ti rivolgi per un aiuto possa celare in sé il male a cui tenti di sfuggire.
Decisamente collocato nel filone distopico è il romanzo La fila di Basma Abdel ̔ Aziz[3], ambientato nel contesto di una rivoluzione politica che ricorda da vicino i moti di piazza Tahrir. Nell’opera risuonano echi tanto delle distopie orwelliane quanto del surrealismo kafkiano, il tutto pervaso da un’atmosfera inquietante che inquadra la riflessione politica in uno scenario alienante e cupamente onirico. Il romanzo costituisce non solo una vivida rappresentazione dell’esistenza dopo le primavere arabe, ma anche uno spaccato tetro e visionario della società egiziana negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione.
L’opera è pubblicata in italiano da Produzioni Nero nel 2018, nella traduzione di F. Fischione.
In una città nordafricana senza nome, la Porta – un’autorità centrale – ha assunto il potere assoluto in seguito agli Sciagurati Eventi. I cittadini sono costretti a fare richiesta per ogni cosa – per mangiare, spostarsi e addirittura per essere curati – ma la Porta resta chiusa e sulla soglia inizia a formarsi una lunga coda di questuanti: la Fila. L’autrice racconta i mesi trascorsi nella Fila da parte di un’umanità precipitata in una realtà parallela e pericolosamente affine al mondo nel quale viviamo.
La trama ruota intorno agli Sciagurati Eventi accaduti nella città senza nome: la repressione della protesta mossa contro l’autorità in carica, rappresentata simbolicamente dalla Porta, che rimane sbarrata davanti alla fila di cittadini, con la sua burocrazia opprimente. La falsificazione di documenti e l’abuso d’ufficio costituiscono il modus operandi tipico di questa burocrazia, che opera attraverso la disinformazione sistematica e la diffusione di false notizie.
Temi centrali dell’opera sono, dunque, l’abuso di potere, l’oppressione e la repressione, nonché l’attentato alla dignità della persona. La porta è l’immagine-simbolo di tanta letteratura di derivazione kafkiana e la lettura allegorica del romanzo è ineludibile: la Porta, perfettamente visibile eppure inaccessibile, rappresenta forse un orizzonte chiuso e precluso a chi abita nel Sud del mondo. Si è materializzata oscuramente all’indomani degli Sciagurati Eventi, in cui è possibile scorgere il fallimento della primavera araba.
Un giorno, la Porta dovrà decidere se aprirsi o essere abbattuta. Quel giorno, le persone costrette ad attendere per anni in fila non dovranno più scegliere tra la vita e la mera sopravvivenza e, forse, alcuni nodi di una memoria collettiva contesa saranno sciolti.
Il romanzo è ricco di riferimenti extra-testuali, che provengono certamente dalla letteratura mondiale – i più ovvi e riconoscibili sono quelli a Beckett, Orwell e Kafka, ma alcuni ritratti psicologici sono pirandelliani e, certamente, vi sono spunti che riconducono alla commedia cinematografica egiziana e alle arti visive.
Sempre incentrato sul tramonto delle grandi speranze del 2011 appare Otared, tre stagioni all’inferno[4] (Atmosphere Libri, 2023, traduzione di F. Pistono), di Mohammad Rabie.
Si tratta forse dell’opera più tetra e tormentata fra i romanzi ispirati alla primavera araba e al suo fallimento. Con una narrazione densa e drammatica, l’autore ci rivela come l’inferno sia sulla terra e non sempre la morte rappresenti l’unica certezza. Pubblicato nel 2015, il romanzo è innegabilmente un libro sulla sconfitta umana e sociale costituita dal fallimento della rivoluzione egiziana.
L’azione prende l’avvio nell’anno 2025, quando l’esercito dei fantomatici Cavalieri della Repubblica di Malta ha invaso l’Egitto da due anni, occupando Il Cairo orientale senza interessarsi alla parte occidentale della città.
La resistenza egiziana è orchestrata da alcuni ex ufficiali di polizia, ribellatisi all’occupante. Il protagonista, il cui nome costituisce il titolo del libro, è il colonnello Ahmed Otared, appostato come cecchino sulla Torre del Cairo, al comando di un corpo speciale infiltrato nella zona occupata. Ahmed ha già soppresso diversi ministri, così come ha assassinato come molti politici egiziani che collaborano con il nuovo regime. A volte, uccide in poche ore decine di ufficiali, soldati, collaborazionisti, passanti. Redige freddamente raccapriccianti elenchi delle sue vittime, e non avverte mai la necessità di redimersi.
Nel frattempo, la società, sprofondata nel caos, presenta uno scenario sinistramente simile a quello offerto da un girone infernale: i cittadini compiono rapine, stuprano, uccidono, si drogano fino a perdere conoscenza, si suicidano in massa, si affrontano in sanguinose battaglie collettive nelle piazze delle città. Il sangue scorre per le strade, gli obitori sono stipati, i cadaveri sono ovunque. L’inferno è sulla terra. L’unica speranza di sottrarsi a quest’incubo è la morte. Invece di temerla, la maggior parte della gente la desidera.
In tale atmosfera apocalittica, i capi della resistenza, personaggi privi del seppur minimo scrupolo, progettano una strage di cittadini egiziani, una carneficina che dovrebbe spingere la popolazione a ribellarsi all’occupante straniero. D’altronde, secondo gli ufficiali che pianificano l’eccidio, gli egiziani meritano una sorta di punizione collettiva, per essere lavati dalla vigliaccheria e dall’ignavia di cui si sono macchiati, accettando passivamente la dominazione straniera. Un manipolo di uomini spietati, fra i quali il colonnello Otared, è incaricato di compiere la missione.
L’abilità dell’autore consiste nel mescolare intrighi, ma anche epoche diverse della storia dell’Egitto. Con un improvviso salto temporale, la narrazione si sposta nel 2011, nei giorni più concitati della rivoluzione, sulle tracce di un uomo che si aggira per la città, visita obitori e ospedali alla ricerca del corpo del padre di un’orfana che ha raccolto. Con un nuovo salto temporale, il lettore si ritrova catapultato nell’Egitto medievale, per assistere alla “resurrezione” di un personaggio che preannuncia l’avvento dell’inferno.
L’idea sottesa al romanzo è quella secondo la quale la nostra vita in questo mondo non sia altro che una fase dell’eterno castigo infernale, in cui ci troviamo a scontare i nostri peccati, commessi in un tempo di cui non conserviamo memoria. Solo ne momento in cui il periodo di pena si conclude, il soggetto può ricordare il proprio passato.
L’inferno è evidentemente metafora della dittatura, dell’oppressione dei cittadini da parte di un regime autocratico, dell’assenza di libertà, del disordine che accompagna una rivoluzione fallita, ma soprattutto della disperazione che segue la speranza prima coltivata, poi amaramente delusa. L’inferno è la condizione in cui gli uomini soggiogati mostrano l’aspetto più tenebroso della natura umana, trasformandosi in predatori feroci, in cacciatori crudeli privi di ogni sentimento di umanità verso i loro simili. Anche in questo romanzo, torna il motivo della progressiva disumanizzazione dell’uomo, della sua graduale trasformazione in belva.
Prima di Otared, tre stagioni all’inferno, Mohammad Rabie aveva scritto un altro romanzo, inserito nel solco della narrativa fantastica, Il pianeta d’ambra (2010)[5], vincitore del primo premio nella categoria Scrittori emergenti del Sawiris Cultural Award, nel 2012.
La trama ruota intorno all’insolita missione affidata a Shaher, un giovane funzionario del Ministero degli Affari Religiosi: redigere un rapporto dettagliato su una biblioteca quasi abbandonata del Cairo, che lo Stato intende abbattere per consentire la costruzione di una nuova linea della metropolitana. Agli occhi del protagonista che procede nella sua indagine si svela, a poco a poco, un mondo misterioso e labirintico all’interno dell’edificio fatiscente e polveroso, in cui i libri sono accatastati senza catalogazioni né registri, e dove si trovano traduzioni in ogni lingua immaginabile. Ammaliato dall’insolita biblioteca, Shaher è attratto anche dal piccolo gruppo di intellettuali strambi che frequentano assiduamente il luogo, fra i quali figurano Ali, un famoso traduttore che ha perduto ogni aspettativa sulla sua professione, “Jean il copista”, un uomo muto che ha passato la vita a fotocopiare libri pagina per pagina e, soprattutto, Sayyid, un vecchio pensatore nichilista, cinico e sinistro, che conosce la biblioteca come il palmo della sua mano ma non è incline a rivelarne i segreti.
Nel corso della sua ricerca, Shaher scopre diverse opere interessanti: traduzioni di romanzi egiziani, trattati di filosofia islamica e persino antiche raccolte di poesie. Il libro più misterioso della biblioteca è la traduzione in arabo del Codex Seraphinianus, un’enciclopedia visiva scritta in un linguaggio fittizio dall’artista e architetto italiano Luigi Serafini negli anni Settanta del Novecento. Un’opera “ermetica” con disegni che sembrano provenire da un altro mondo, forse addirittura da un altro pianeta.
Con dotti riferimenti disseminati nella narrazione, il romanzo rende omaggio alla letteratura egiziana e araba, dalle famose traduzioni di al-Manfaluti ai classici di Nagib Mahfouz, passando per la poesia di Ahmed Shawqi, il Principe dei Poeti, o la filosofia del testo allegorico di Ibn Tufayl, Il figlio vivente del vigilante o Il filosofo autodidatta, risalente al XII secolo. La citazione dell’opera, simbolo di un approccio induttivo e razionale alla realtà, serve retrospettivamente a denunciare l’ascesa dell’oscurantismo nelle società contemporanee.
L’autore intende probabilmente seminare qualche dubbio nell’animo del lettore: la biblioteca, nel suo disordine caotico, non rappresenta, per caso, un’allegoria dei mali sotterranei che perseguitano il pensiero arabo? La cultura araba non è forse ridotta, come la biblioteca, a “un punto di sosta, un luogo di relax”, ovviamente destinato a ricercatori “che non hanno un piano di lavoro o un tema di ricerca”?
Con questo romanzo chiaramente influenzato dalle opere di Borges, Rabie ci ricorda che la cultura araba è una biblioteca viva ma condannata, che non ha altra scelta se non quella di strapparsi al suo caos e lottare contro i suoi demoni.
Tutti i lettori di Borges sanno che la biblioteca è il luogo ideale per esplorare temi complessi come l’immensità del sapere universale, la circolazione dei miti, il labirinto della creazione letteraria o anche il confine necessariamente poroso tra i regni della realtà e dell’immaginario. Nel testo di Rabie, l’eredità borgesiana è rivisitata in un testo anticonformista in cui si fondono creatività narrativa, riflessioni sulla traduzione, ritratti socio-culturali e critica politica dell’Egitto e del pensiero arabo.
Da sottolineare, infine, come l’autore tessa magistralmente un doppio intreccio narrativo. Tra la voce di Shaher e quella di Sayyid, la storia rivela frange di marginalità, lontane dal mondo soffocante della burocrazia, e strati di sogni e leggende sotto l’epidermide raggrinzita della città.
Il romanzo è tradotto in francese con il titolo La Biblothèque enchantée, Sindbad, Actes Sud, 2019, traduzione di S. Dujols.
Un altro filone della narrativa fantastica egiziana abbandona decisamente i tetri orizzonti del dopo-rivoluzione, per concentrarsi su storie dalle tinte meno cupe. Molto interessanti, in questo senso, sono i romanzi di Mansoura Ez Eldin, Monte Smeraldo (2014) e I giardini di Bassora (2020).
Ğabal al-Zumurrud [6](Monte Smeraldo) ha ricevuto il titolo di miglior libro al 33° Salone di Sharjah. Il pluripremiato romanzo è in gran parte ispirato a Le mille e una notte.
La trama ruota intorno a due storie parallele le cui vicende si intrecciano e si sovrappongono, come se la nuova storia, quella attuale, venisse a colmare i vuoti della vecchia.
La vicenda prende le mosse da una ricerca storica. Corre l’anno 2011, all’indomani della rivoluzione egiziana. Una giovane studiosa, Bustan al-Bahr, chiusa nel suo appartamento del Cairo, conduce una ricerca sulla vera storia di Zumurruda, principessa del paese di Qaf, all’origine della distruzione del reame di suo padre e della dispersione degli abitanti del paese. La storia maledetta di Zumurruda sarebbe stata distorta e poi abbandonata dai narratori de Le mille e una notte. La missione di Bustan è quella di epurare il racconto da ogni digressione, arrogandosi il diritto di rettificare e completare certi passaggi. Raccogliendo la leggenda perduta della principessa di Qaf, la ricercatrice ne ricuce la trama, la ricostruisce, la affina, intrecciandola alla vicenda di Hadir, una giovane egiziana dell’epoca contemporanea, che si ritrova coinvolta in un’avventura al di là del tempo e dello spazio. La ricercatrice raggiunge il suo scopo soltanto dopo inenarrabili avventure e incessanti colpi di scena, in un continuo andirivieni tra tempi e luoghi diversi, in un mondo fantastico ammantato di magia.
Il libro non è tradotto in italiano.
Anche il romanzo I giardini di Bassora (Basātīn al-Baṣrah)[7] è ambientato in due diverse epoche storiche. Nell’Egitto contemporaneo, il protagonista Hisham è un giovane commerciante di manoscritti, affascinato dai libri antichi. Hisham è laureato in chimica ma è disoccupato, vive con la madre, è insoddisfatto della sua condizione, la passione per i libri rari rappresenta la sua sola isola felice. Ossessionato da un sogno ricorrente, in cui vede angeli discesi dal cielo per cogliere gelsomini nei giardini di Bassora, decide di interpretare il sogno attraverso Il grande libro dell’interpretazione dei sogni, attribuito a Ibn Sirin. Si convince così di essere stato, in una vita precedente, un personaggio di nome Yazid bin Abih, vissuto nell’ottavo secolo d.C. a Bassora, in Iraq.
Hisham rivive in sogno la storia di Yazid, introducendo il lettore in un ambiente in cui si muovono personaggi importanti di quell’epoca, tra cui Wasil bin Ata e Al-Hasan al-Basri, e altri come Mujeeba, la moglie di Yazid, e il suo amico ‘Adi bin Malek.
Nonostante la pluralità voci narranti e le differenze di tempo e di luogo, i personaggi hanno tutti un tratto in comune: la fede nel potere rivelatore dei sogni, un elemento già trattato dall’autrice nelle opere precedenti.
Proprio come Hisham, Yazid è un uomo povero con un gran desiderio di conoscenza. A Bassora, Yazid prende parte ai raduni dei teologi più celebri del suo tempo, sperando di ricevere qualche briciola di sapienza. Eppure, Yazid, un modesto cestaio, appartiene a un mondo completamente diverso da quello dei saggi, senza alcuna speranza di ricchezza o potere.
Come Hisham, anche Yazid attribuisce un’estrema importanza ai sogni e alla loro interpretazione. Come Hisham, anche Yazid ha un sogno ricorrente: vede fiori di gelsomino spuntare nei giardini di Bassora.
Il ricco amico di Yazid, Malek bin Oudi, è un famoso interprete dei sogni del suo tempo, consultato da molte persone. Secondo Il grande libro dell’interpretazione dei sogni, i fiori di gelsomino rappresentano un cattivo presagio. E quando Yazid racconta il suo sogno a Malek, questi rimane costernato, poiché i gelsomini annunciano sventura, angoscia e tristezza.
L’interpretazione del sogno segna il punto di svolta nelle vicende di Yazid e Hisham, perché entrambi finiscono per commettere crimini destinati a sconvolgere le loro esistenze.
Nella narrazione, sogno e realtà coincidono e i confini tra ragione e follia diventano pericolosamente sottili. Come la vita di Yazid, anche la vita di Hisham è contaminata dalla violenza.
Il romanzo sottolinea il doloroso contrasto tra lo splendore della Bassora di ieri e il destino funesto della Bassora contemporanea – dove i lutti e le bombe hanno sostituito gli angeli.
La narrativa fantastica egiziana si dispiega, dunque, in varie e diverse direzioni, riuscendo sempre a catturare l’attenzione del lettore occidentale, svelandogli orizzonti sconosciuti e prospettive inedite.
[1] T. Al-Ḥakīm, Fī sanat malyūn, in Arinī Allāh, Il Cairo, Dār al-Šurūq, 2007.
[2] T. Al-Ḥakīm, Riḥlah ilà al-ġad, Il Cairo, Dār Misr al-Tibāˁa, 1957.
[3] B. ˁAbd al-ˁAzīz (2013), Al-Ṭabūr, Il Cairo, Dār al-Tanwīr, 2013.
[4] M. Rabī ̔, ̔ Uṯārid, Il Cairo, Dār al-Tanwīr, 2015.
[5] M. Rabī ̔, Kawkb ̔ anbar, Il Cairo, al-Kitāb ḫān, 2010.
[6] Manṣūrah ̔ Izz al-Dīn, Ğabal al-zumurrud, Il Cairo, Dār al-Tanwīr, 2014.
[7] Manṣūrah ̔ Izz al-Dīn, Basātīn al- Baṣrah, Il Cairo, Dār al-Šurūq, 2020.
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