Riprendiamo dall’UNITA’ https://www.unita.it/2024/01/27/intervista-a-edith-bruck-e-colpa-di-netanyahu-se-lantisemitismo-dilaga/

La scrittrice sopravvissuta ai campi di sterminio parla nel Giorno della memoria, mentre in Medioriente si sta consumando una tragedia «che non riguarda solo lo stato d’Israele, riguarda tutti noi: lo tsunami di antisemitismo è colpa di Bibi, quello che fa ricade su tutti gli ebrei»

INTERVISTE – di Umberto De Giovannangeli – 27 Gennaio 2024

Parlare con Edith Bruck è come lasciarsi trasportare nel tempo, con una profondità e una leggerezza tanto più significative quando si affrontano vicende dolorosissime. E poi c’è la nettezza delle considerazioni, la lucidità intellettuale di una persona che ha visto tutto nella sua lunga, straordinaria esistenza, e che ancora oggi, a 92 anni, mantiene la voglia di frequentare il futuro.

Il suo ultimo libro si intitola infatti I frutti della memoria. La mia testimonianza nelle scuole (con Eugenio Murrali, edito da La Nave di Teseo). Di origine ungherese, Edith Bruck è nata in una povera, numerosa famiglia ebrea. Nel 1944, poco più che bambina, il suo primo viaggio la porta nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio, approda definitivamente in Italia, adottandone la lingua.

Nei suoi libri ha reso testimonianza dell’evento nero del XX secolo. Ha ricevuto diversi premi letterari ed è stata tradotta in più lingue. La abbiamo intervistata in occasione della Giornata della memoria, una ricorrenza, quella del 27 gennaio 2024, che cade in un momento drammatico, con la guerra di Gaza e la ferita del 7 ottobre che ha segnato Israele. Edith Bruck non si sottrae al tema e a l’Unità consegna un messaggio potente: “Nel decidere la reazione al 7 ottobre – afferma – Netanyahu non si è consultato con gli ebrei che popolano il mondo e che oggi sono diventati un bersaglio di odio. Signor Netanyahu, nel comportarsi come Lei ha fatto, ha alimentato l’antisemitismo”.

Signora Bruck, alla luce dei drammatici avvenimenti che scuotono il mondo, in Ucraina e in Medioriente, cosa significa la Giornata della memoria?
Resta qualcosa di molto importante ma una giornata è troppo poco. Quel giorno si riempie di mille dichiarazioni, e poi si volta pagina. Come se si dovesse assolvere un obbligo. Per me quella giornata dovrebbe durare tutto l’anno. Per me, sopravvissuta, la memoria è tutta la vita. La memoria è vita. Il 27 è una data simbolica, la liberazione di Auschwitz, ma l’ultimo lager fu liberato l’8 maggio. Va benissimo legare la Giornata ad Auschwitz, per quello che ha rappresentato. Però, non vorrei che tutte queste cerimonie, discorsi, portino a dire: uffa di questi ebrei non ne possiamo più.

C’è il rischio di una retorica della memoria?
No, non credo che sia questo il problema. Tutti prendono molto sul serio il tema, non sono, almeno spero e credo, parole di circostanza. Sono discorsi, iniziative importanti, come dovrebbero esserne altri. Perché la memoria deve essere inclusiva e non deve selezionare o gerarchizzare l’orrore. Bisognerebbe parlare anche degli zingari, degli omosessuali, dei portatori di handicap che sono stati perseguitati dai nazifascisti e trucidati negli stessi lager dove hanno cercato di sterminare gli ebrei. I primi ad essere deportati in Germania sono stati gli handicappati. So che è difficile unire tutti nel ricordo, ma penso che sarebbe giusto, una bella cosa, unire tutti nel ricordo della Giornata della memoria. Il che non significa sminuire la specificità della Shoah, che resta un unicum nella storia, la soluzione finale per milioni di persone colpevoli di essere ebrei, semplicemente di esistere. Una industria della morte pianificata a tavolino, tutti gli altri disastri, che non vanno dimenticati, non possono però essere paragonati alla Shoah.

Il 27 gennaio di quest’anno, cade in un momento tragico per Israele e la Terrasanta. Una terra sempre più insanguinata.
È un momento molto drammatico, per tutti. Non soltanto per Israele. È una tragedia che non riguarda solo lo Stato d’Israele e i suoi cittadini. Riguarda tutti noi. Ormai sentiamo dire, non solo da Hamas, che bisogna colpire tutti gli ebrei, anche fuori da Israele. Annientare. È la parola dei nazisti. Ma è anche la parola utilizzata da Netanyahu. Una parola orribile. E poi c’è una cosa da dire…

Quale, signora Bruck?
Netanyahu non è che si consulta con gli ebrei di tutto il mondo per decidere cosa fare. Lui fa quello che vuole. Gli ebrei fuori d’Israele non c’entrano niente. Perché bisogna ammazzarli? Questo tsunami di antisemitismo è venuto per colpa di Netanyahu. Per quello che sta succedendo tra Israele e i palestinesi di Gaza. Ma le ricadute riguardano tutti noi. L’odio che monta sui social, le ripetute aggressioni subite da ebrei in Europa, gli accoltellamenti… A lui non importa del danno che sta facendo a tutti gli ebrei. È una cosa drammatica.

In questa tragedia, la cosa che colpisce di più riguarda i bambini. Il bimbo israeliano che compie un anno in cattività, gli oltre diecimila bimbi palestinesi uccisi o amputati. Che mondo è quello che tratta così i più indifesi tra gli indifesi?
È un mondo che sta uccidendo il futuro. È una cosa orribile, da una parte e dall’altra. Nessun bambino al mondo dovrebbe morire in questi modi atroci. Non dimentichiamo che ogni minuto un bambino muore di fame. È un mondo invivibile, allucinante. Tutto ci riguarda di ciò che accade nel mondo. Non soltanto quello che accade a casa nostra o in Israele. Ogni mostruosità che accade nel mondo ci riguarda. Non possiamo dire: non sapevo. Oggi sappiamo tutto, in tempo reale.

In nostre precedenti conversazioni, abbiamo parlato di un impegno che l’ha accompagnata per tutta la vita. Parlare con i giovani. C’è una speranza nei giovani?
È uscito in questi giorni un mio libro che s’intitola I frutti della memoria, che raccoglie lettere che ho ricevuto in oltre 60 anni da giovani. Ho dovuto fare una selezione, perché sono migliaia le lettere che ho ricevuto in tanti anni. Lettere diverse, da luoghi diversi. Da 62 anni ormai, sono accolta da braccia aperte, da cuori e occhi aperti, da orecchie aperte per ascoltare ciò che dicevo. Sensibilità, emozioni, curiosità, e voglia di conoscere, di capire. Dappertutto. Non credo che sia stato inutile. Tutt’altro. Anni e anni nei quali sono andata in scuole, università di tutta Italia. Giurano che non saranno più fascisti, che non saranno antisemiti. Alcuni di loro stanno testimoniando per me. No, non è stato inutile. Bisogna parlare anche se magari dicono, scherzosamente i più: uffa ma quanto parla, racconta sempre la stessa cosa. Non importa se su quattrocento ragazzi che ti ascoltano, cinque se ne escono. L’importante sono i 395 che rimangono. Ascoltano con gli occhi, mangiano le parole. Vogliono sapere, per loro, non per me. Il mio futuro è dietro di me, come diceva Vittorio Gassman. Non è per me. È per i giovani. Cerchiamo di aiutare il mondo, i giovani, come mi ebbe a dire papa Francesco quando venne a trovarmi a casa, una goccia di bene in questo mondo neo. Tutti possono fare, non soltanto io.

Lei ha detto che nessuno può più dire non sapevo, non ho visto, come accadde per tanti tedeschi alla scoperta dei lager nazisti.
Adesso non possono dire non sapevo. Il dramma arriva dentro casa, in televisione, nei canali social. Non possono dirlo, i vecchi come i giovani. Il problema per questi ultimi, è che nella scuola italiana e non solo, il passato è insegnato molto poco e male. Questa Europa colpevole, prova in ogni modo di coprire quello di terribile di cui si è resa responsabile, invece di fare i conti con il proprio passato. Anche in Ungheria hanno detto che noi ebrei siamo stati portati via dai tedeschi. Invece eravamo stati portati via dai fascisti gendarmi ungheresi. Hanno mistificato immediatamente la storia. E si continua a farlo. L’unico paese che si è confrontato, in qualche modo, con le proprie colpe, è la Germania. In Ungheria dal fascismo, sono passati al comunismo. Tutti comunisti! Adesso sono tornati tutti, o quasi, fascisti.

Senza memoria non c’è futuro. Ma non c’è il rischio, o forse l’amara certezza, che ormai viviamo in un eterno presente?
L’eterno presente è in noi. Il tempo nella vita è unico. Non c’è ieri, oggi e domani. Questo presente contiene il passato e il futuro.

Lei è stata compagna di vita di un grandissimo poeta, oltre che del cinema: Nelo Risi. Oggi, la cultura nelle sue varie forme espressive, mostra quell’impegno necessario per provare a costruire un futuro diverso, migliore, più umano?
Direi di no. Purtroppo non vedo in giro poeti impegnati come una volta, che urlano, che denunciano, che mettono in versi, che scrivono sui giornali, per denunciare tutto quello che non va. È tutto “ammosciato”. C’è una chiusura, una solitudine, un egoismo generalizzati. Altro era la generazione dei Risi, dei Sereni, dei Montale… Oggi non c’è un grande poeta. E questo non vale soltanto in Italia. Anche in Ungheria ci sono stati grandi poeti in passato, oggi non più. Come se gli avessero tagliato le ali. Come se si fossero convinti che tanto non cambia niente. Io ho tradotto in Italia grandi poeti ungheresi, come Attila József, che morì suicida, o Miklós Radnóti, ucciso dai tedeschi, impegnati socialmente. Io non vedo oggi un grande impegno politico e sociale di personalità del mondo della cultura. Dove sono? Cosa è successo? Montale mi diceva che lui stesso non viveva di poesie, almeno fino a quando non vinse il Nobel, ma allora era già vecchio. Mi ricordo che da bambina dissi a mia madre: “io voglio fare la poetessa”. “Se vuoi morire di fame”, mi rispose… Anche Montale per vivere scriveva sul Corriere. Oggi se vai in una libreria, un libro di poesie viene occultato, lo devi cercare col lanternino, come una rarità. Una tristezza terribile. Ho chiesto anche in Ungheria di mandarmi un libro perché a me piaceva tradurre. Non c’è. Non s’indignano più. E l’indignazione era un sentimento che motivava la scrittura. Ci siamo abituati all’orrore. Non gridiamo più. Forse perché le orecchie sono sorde alle grida di dolore.

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