I palestinesi in ogni luogo, in Palestina o nella diaspora, hanno commemorato il massacro di Deir Yassin, compiuto il 9 aprile 1948 dalle bande sioniste di Irgun e Stern, guidate da Begin, definito allora dai colonialisti inglesi terrorista, diventato poi primo ministro di Israele. È un massacro che i sionisti hanno sempre acclarato, si sono vantati di averlo compiuto e non lo hanno nascosto o smentito, come tanti altri massacri dei civili inermi, in quella che era stata la pulizia etnica all’origine della creazione dello Stato di Israele. I libri di storia palestinesi parlano di 245 civili sono stati assassinati in maggioranza donne, bambini e anziani. Il totale degli abitanti era 750 persone. Il 10 aprile 1948 non è rimasto nessun palestinese nel villaggio. Chi non è stato ucciso è stato costretto alla deportazione verso altri villaggi o Gerusalemme. Un gruppo di 70 donne e bambini è stato portato a piedi a Gerusalemme e consegnato all’esercito britannico.
Tra i nuovi storici israeliani si registrano ricerche che hanno riportato alla luce documenti secretati e memorie di miliziani che avevano partecipato a quel massacro.
Non è stato solo la «mera» eliminazione dei suoi abitanti: Deir Yassin doveva fare da monito per il resto della Palestina. Andatevene prima che a cacciarvi siano le armi. Strategia calcolata che rientrava nel cosiddetto Piano Dallet: «Lo scorso venerdì insieme alle Irgun il nostro movimento ha compiuto una tremenda operazione di occupazione del villaggio arabo Deir Yassin. Ho partecipato all’operazione nel modo più attivo – scrive in una lettera Yehuda Feder della Stern – Ho ucciso un arabo armato e due ragazze arabe di 16 o 17 anni. Li ho messi al muro e li ho colpiti con due giri di pistola».
Storie custodite negli archivi, accompagnate da altre svelate a giornalisti e registi che si sono dedicati a Deir Yassin, come Neda Shoshani: «Correvano come gatti – le racconta un comandante delle Lehi, Yehoshua Zettler – Casa per casa, mettevamo esplosivo e loro scappavano. Un’esplosione e poi avanti, metà del villaggio non c’era più. I miei uomini hanno preso i corpi, li hanno impilati e gli hanno dato fuoco. Hanno iniziato a puzzare».
Tra quei deportati vi è ancora in vita Mohammed Hamida, che adesso vive a sud di Gerusalemme. Racconta che all’epoca aveva 8 anni. “è stato un viaggio doloroso e duro. Senza scarpe e sotto la minaccia delle armi. Quando siamo stati consegnati ai soldati inglesi, ci hanno portato in una scuola, trasformata in rifugio per sfollati… Mi ricordo quei momenti; il dramma di Gaza in questi giorni ha riportato alla mente quella ferita con molta più nitidezza. Abbiamo subito diversi sfollamenti e nel 1967 siamo stati cacciati in Giordania, questo dove viviamo a sud di Gerusalemme è l’ottavo luogo di sfollamento. Sono tornato a Deir Yassin e ho ritrovato la nostra casa di allora. È tutta intatta, costruita in pietra. È abitata da un medico ebreo emigrato dalla Russia. Quando gli ho detto: ‘questa è casa mia, io sono nato qui’, mi ha risposto: ‘Era casa tua, adesso è mia’. Non mi ha lasciato neanche entrare a vedere l’atrio e osservare l’ulivo in mezzo. Io le chiavi di quel portone di ferro, li conservo ancora e un giorno ritorneremo. Se non io, i miei figli e nipoti”.
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