Dal Fatto Quotidiano riprendiamo questo articolo sulla realtà dei palestinesi di Israele, i cittadini palestinesi che hanno resistito alla deportaazione nel 1948 e sono rimasti nello loro case, villaggi e città sotto l’occupazione israeliana. da: QUI
“Noi, palestinesi paria di Israele: la democrazia è un fantoccio”
Di Joseph Confavreux
Le voci – Abed era consigliere comunale di Tel Aviv: “Non mi sono ricandidato e con l’università ho chiuso. La nostra classe media preferisce i pochi vantaggi della cittadinanza accettando un suicidio”. Haneen: “Dal 7 ottobre non osiamo più parlare”
Abed vive a Giaffa, parla perfettamente l’ebraico e l’inglese, oltre all’arabo, ed è stato fino a poco tempo fa uno dei rari palestinesi ad essere eletti nel consiglio comunale di Tel Aviv e Giaffa. Ma il giovane laureato in scienze politiche ha deciso di non ripresentarsi alle elezioni municipali di quest’anno. Non è nemmeno andato a votare. Ha persino interrotto la sua tesi di dottorato, per tagliare tutti i ponti con il mondo accademico israeliano. Secondo lui i palestinesi di Israele dovrebbero boicottare le istituzioni dello Stato ebraico: “Viviamo in una società che preferisce suicidarsi e trascinare con sé tutta la regione, piuttosto che rinunciare alla forza. Israele non ha soluzioni per Gaza e ancora meno per il nord. Il Paese non si riprenderà mai, né economicamente né politicamente – osserva -. Diventerà uno Stato paria, come dimostra la decisione della Corte penale internazionale”.
Secondo Abed, “Israele diventerà un nuovo Libano”: “Gli israeliani che potranno permetterselo partiranno, lasciando a noi il compito di affrontare gli estremisti religiosi. Ho deciso di non ripresentarmi più alle municipali, perché non voglio che Israele possa ancora vantarsi di essere uno Stato democratico solo perché ci sono degli arabi nella Knesset e nei consigli comunali”. Abed ritiene che i palestinesi di Israele debbano “smetterla di volersi integrare a ogni costo nel Paese. Non si tornerà mai a come si stava prima del 7 ottobre, checché ne pensi la classe media palestinese che preferisce i pochi vantaggi della cittadinanza israeliana alla solidarietà con la resistenza. Che non significa solidarietà con Hamas, ma solidarietà con il progetto nazionale palestinese. Che senso ha parlare ancora di coesistenza mentre è in corso uno genocidio? – continua -. Per molto tempo i partiti politici arabi in Israele hanno pensato di potersi alleare con la sinistra. Ma cosa è una sinistra che difende l’ambiente e i diritti LGBT se poi commette crimini di guerra?. Il problema non è solo il governo – aggiunge -. Nessuno qui capisce che si possa essere indignati perché dei bambini muoiono di fame! Quando ricordi quanti bambini palestinesi sono stati uccisi a Gaza, ti rispondono che anche dei bambini ebrei sono morti il 7 ottobre. Come non capire che i crimini di guerra non giustificano di rispondere con altri crimini? Non capiscono che un bambino che ha visto uccidere la sua famiglia, da grande si rivolterà contro di loro”. In un video recente su Instagram, un giovane di Gaza, fuggito prima che l’esercito israeliano prendesse il controllo del posto di blocco di Rafah, ha lanciato un appello ai palestinesi di Israele, invitandoli a “scendere in piazza per chiedere il cessate il fuoco e la restituzione degli ostaggi. Il vostro silenzio – ha detto – non ci aiuta”. “Conosciamo la società israeliana e sappiamo che se ci uniamo ai manifestanti – spiega Abed -, non solo non saremo i benvenuti, ma soprattutto rischieremo la vita. Tutti sono armati e i servizi di sicurezza ci tengono d’occhio”. A Umm Al-Fahm, una delle più grandi città palestinesi a Israele, nel nord, era stata organizzata a metà ottobre una manifestazione in solidarietà con Gaza: “I due organizzatori sono stati arrestati e la manifestazione è stata vietata. Uno è ancora in prigione senza processo, l’altro è agli arresti domiciliari”, racconta Haneen, avvocato, 38 anni, la cui famiglia vive a Umm Al-Fahm “da nove generazioni”. La sua casa è a poche centinaia di metri dal muro di separazione con la vicina Cisgiordania. La giovane donna ricorda che sin dal 18 ottobre 2023, il capo della polizia israeliana, Kobi Shabtai, intervenendo su TikTok, aveva intimato ai palestinesi di Israele di scegliere da che parte stare: “Chiunque voglia essere cittadino di Israele, Ahlan wa sahlan (che vuol dire “benvenuto” in arabo, ndr). Chiunque voglia identificarsi con Gaza, può farlo, lo spedirò lì in autobus”.
Il 30 marzo scorso, in occasione della Giornata della terra, che ricorda la repressione dei palestinesi di Israele del 1976, Haneen si è unita “ad alcune decine di manifestanti” a Umm Al-Fahm, mostrando “la bandiera palestinese”: “Mi sono messa a piangere come se qualcuno mi avesse tenuta imbavagliata per mesi”. Haneen è stata membro dell’ufficio politico del Balad, uno dei principali partiti arabi in Israele, dal 2016 al 2021. Ne fa ancora parte, ma non è “più militante attiva”: “Penso che non abbiamo più posto nelle istituzioni politiche di Israele – spiega -. Dal 7 ottobre non osiamo più parlare. Neanche io, che come avvocato, conosco i miei diritti. Ma ho una figlia di due anni e non voglio prendere il rischio di finire in prigione. Si può essere accusati di collusione con Hamas anche solo per aver pianto per i bambini uccisi a Gaza”. A Umm Al-Fahm, a differenza di altre città del sud di Israele, come Giaffa, Ramleh e Lod, poche famiglie hanno parenti a Gaza. Ma Haneen segue “tutti i giorni i racconti che arrivano da Gaza, dei medici e di un gruppo di madri, i cui figli sono stati uccisi”. Per lei si assiste ad una “seconda Nakba”, l’esodo palestinese del 1948 seguito alla creazione dello Stato di Israele: “I soldati che oggi combattono a Gaza – spiega – sono i nipoti dei soldati che hanno combattuto la prima guerra”.
Di recente il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha deciso di oscurare Al Jazeera, la tv del Qatar: “La volontà di soffocare una voce dissidente mostra in che stato è ridotta la democrazia in Israele – osserva -, ma questo divieto non ci impedisce di continuare a seguire Al Jazeera sui social e YouTube”. Un’amica di Haneen, Taghreed, anche lei avvocato a Umm Al-Fahm, 42 anni, racconta cosa è successo a sua sorella, architetto in un studio di Cesarea: “Tutti i suoi colleghi sapevano che è palestinese. Molti erano persino venuti al suo matrimonio – racconta –. Dopo il 7 ottobre, mia sorella ha aspettato qualche giorno per tornare al lavoro, ma al suo rientro, nessuno le ha più rivolto la parola. Poi, un giorno, una collega l’ha denunciata perché aveva postato su Instagram la foto di un bambino con una bandiera palestinese. Il suo superiore l’ha convocata e le ha annunciato che sarebbe stata licenziata per motivi economici. Si trattava chiaramente di una discriminazione”. Taghreed ha avviato una procedura giudiziaria, ancora in corso, ma sua sorella “ormai lavora come libera professionista e non ha più contatti con gli ebrei israeliani. Siamo costretti a proteggerci”, dice. Taghreed ha due figli piccoli e teme per il loro futuro: “Non dovranno solo vedersela con l’amministrazione, con la polizia e i politici, come è stato per noi, ma con un’intera generazione di israeliani cresciuta con l’idea che bisogna cancellare la presenza palestinese in Israele. Da quando ero giovane, ho sentito dire che siamo un problema demografico e politico. Ma non ho mai percepito un desiderio così forte nel Paese di sbarazzarsi di noi”.
Bilal è l’imam di una piccola moschea di Giaffa, città che per molto tempo è stata vetrina della coesistenza tra ebrei e palestinesi: “Ogni volta che predico per i bambini di Gaza, mi ritrovo con gli agenti dello Shin Bet, i servizi di sicurezza interni di Israele, che mi mettono casa sottosopra. Non parlo di politica, chiedo solo ai fedeli di pregare per i morti”. Bilal è convinto che ci siano “molte spie che riferiscono tutto” agli israeliani: “La maggior parte dei miei fedeli di Giaffa ha parenti a Gaza – continua -. Mia sorella e tutti i miei nipoti vivevano nel campo di Jabalia e non ho più notizie di loro da diverso tempo. Non so se sono vivi o morti”. L’ultimo Ramadan è stato “il più triste che abbia mai vissuto qui a Giaffa”: “Di solito si decorano le case e le strade – racconta –. Ma quest’anno come facevamo a festeggiare con le nostre famiglie che vengono massacrate a Gaza? Abbiamo sempre sofferto il razzismo. Ma dal 7 ottobre, la gente ci guarda come se non fossimo più esseri umani. Temo che Israele si stia autodistruggendo e ci stia trascinando con sé – aggiunge –. Saremo noi palestinesi di Israele le prime vittime di questa catastrofe, saremo noi a pagare il prezzo più alto”.
Traduzione di Luana De Micco