Luana De Micco – il fatto quotidiano (QUI)
“La scritta press è diventata bersaglio”. Sono le conclusioni raccapriccianti di una lunga inchiesta, battezzata “Projet Gaza”
I giornalisti sarebbero presi deliberatamente di mira dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza e per loro portare il giubbotto antiproiettile con la scritta press non sarebbe più una protezione, li esporrebbe anzi di più ad attacchi di missili e droni. Sono le conclusioni raccapriccianti di una lunga inchiesta, battezzata “Projet Gaza”, portata avanti dai media del consorzio internazionale Forbidden Stories, tra cui il francese Le Monde e il britannico Guardian. Sono 108 i reporter e gli operatori dei media uccisi a Gaza dall’inizio della guerra, stando ai dati del Comitato per la protezione dei giornalisti, basato a New York. Almeno quattordici, secondo Forbidden Stories, sarebbero stati colpiti tra Gaza, Cisgiordania e sud del Libano, mentre indossavano il giubbotto stampa. Almeno diciotto sarebbero i reporter palestinesi presi di mira da un drone israeliano: sei sono morti, dodici sono rimasti feriti.
L’inchiesta rivela che il raid contro l’ufficio dell’agenzia France Presse a Gaza, il 2 novembre 2023, che ha devastato i locali senza fare vittime, è stato probabilmente perpetrato da carri armati israeliani, come emerge dall’analisi delle immagini e dei suoni catturati in diretta dalle telecamere dell’agenzia, uno dei rari media che all’epoca era ancora presente a Gaza. Il giorno dopo, l’esercito israeliano, che aveva le coordinate dell’ufficio dell’Afp, aveva negato di aver preso di mira l’edificio. La France Presse e il collettivo Airwars hanno concluso inoltre che era stato sempre il razzo “deliberatamente” lanciato da un blindato israeliano a colpire il 13 ottobre scorso, nel sud del Libano, un gruppo di sette reporter. Tra loro c’era anche Issam Abdallag, 37 anni, di Reuters, che è rimasto ucciso.
Da parte sua Le Monde ha parlato con i quattro giornalisti di al Jazeera che il 22 gennaio scorso sono stati colpiti da un missile mentre si trovavano sulla collina di Tal al-Za’tar, nel nord della Striscia, uno dei rari posti dove i giornalisti ricevono un segnale internet sufficiente per fare le dirette: “Un missile lanciato da un drone ci ha presi di mira – ha raccontato Emad Ghaboun, rimasto seriamente ferito nell’attacco –. Stavamo realizzando un servizio sulla carestia nel nord della Striscia. Stavo inviando delle immagini. Il loro obiettivo era di impedirci di mostrare quelle immagini al mondo”. Tra loro, Anas al Sharif portava il giubbotto blu press. Tutti gli esperti sentiti nell’ambito dell’inchiesta confermano che i droni israeliani sono dotati di tecnologie e telecamere capaci di identificare e localizzare perfettamente i loro bersagli. Eppure il 15 dicembre 2023, Samer Abu Daqqa, 45 anni, che realizzava un reportage per al Jazeera a Khan Younis, nel sud della Striscia, è morto nell’attacco di un drone mentre indossava il giubbotto e l’elmetto da giornalista che avrebbero dovuto proteggerlo. Il suo corpo è stato ritrovato “a pezzi”. Il suo caso è stato portato davanti alla Corte penale internazionale, mentre l’esercito israeliano, che nega ogni attacco intenzionale contro i giornalisti, ha detto di aver aperto un’inchiesta.
Diversi reporter hanno raccontato a Le Monde di non voler più portare l’equipaggiamento stampa, perché hanno paura: “L’esercito israeliano attacca deliberatamente i giornalisti. Siamo diventati bersagli, e i nostri giubbotti ci espongono ancora di più”, osserva Hossam Shabbat di al Jazeera. Il fotografo Mohammed Zaanoun, che conta più di un milione e mezzo di follower su Instagram e lavora anche per la Bbc, racconta di ricevere minacce: “Gli israeliani inviano sms o telefonano a tutti i giornalisti presenti a Gaza, dicendo loro: ‘Stop o prendiamo di mira voi e le vostre famiglie’”.