Riprendiamo dal Fatto Quotidiano questo diario di Aya Ashour, giornalista e attivista di Gaza intrappolata nelle tende di plastica e in perenne sfollamento. La redazione.

Oltre 300 giorni – Sto male, ma zero medicine e ormai ho perso anche la dignità

Di Aya Ashour

4 Agosto 2024

Più di 300 giorni in cui ho seguito le notizie sui negoziati, i discorsi sul cessate il fuoco, le elezioni americane e mi sono chiesta quale presidente a Washington potesse portarci la pace e fermare questa guerra. Più di 300 giorni a cercare notizie sulle riunioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sulle dichiarazioni della Lega Araba e adesso ad aspettare la presunta “risposta” iraniana e i “successi” di Hezbollah a spese della nostra causa.

Dall’ottobre scorso scrivo su queste colonne. Inizialmente, vi ho scritto dal mio letto e dalla mia scrivania nella mia casa di Al-Mughraqa, a sud di Gaza City. Poi, vi ho scritto dal campo di Nuseirat dopo il mio primo sfollamento. In seguito, vi ho scritto da Rafah e ora vi scrivo da Khan Younis, già da qualche tempo, dopo il mio settimo sfollamento.

Più di 300 giorni di questo genocidio in corso. A essere onesti, quando ho scritto per il Fatto la prima volta, non avrei mai immaginato di continuare fino a oggi. Non immaginavo neppure di perdere la mia dignità. Sì, ho perso la mia dignità e la mia umanità, vivendo in una tenda di nylon con la mia famiglia, senza privacy e senza comfort. Più di 300 giorni in cui per spostarmi ho dovuto ricorrere a un carro trainato da animali, più di 300 giorni in cui mio fratello raccoglie legna per accendere il fuoco e cucinare, più di 300 giorni di freddo, fame, caldo, sfollamento, miseria e perdite.

Più di 300 giorni di addii a persone care uccise o finite chissà dove. Ho perso due dei miei zii, la mia cara amica Hiba e il mio vicino, lo zio Abu Khalil, che era come un padre per me. Ho perso la mia casa, ridotta a un cumulo di macerie, il mio futuro e la possibilità di fuggire da questo massacro. Ho perso molto peso e la mia salute si è deteriorata e ora, mentre scrivo, non sto bene, ma non ci sono medicine. Più di 300 giorni senza vedere i miei nonni e i miei parenti nel Nord di Gaza, senza vedere i miei amici Ibrahim, Mohammed e Alina. Non li ho abbracciati né mi sono seduta con loro in riva al mare a sorseggiare un caffè. Non abbiamo camminato per le strade della città e non ci siamo impegnati nelle nostre attività al servizio della comunità. Più di 300 giorni di uccisioni continue, con Israele che blocca gli aiuti. Aspettiamo che cadano dal cielo, che ci uccidano all’impatto o che ci diano un piccolo sollievo con la morte. Più di 300 giorni di bambini, donne e anziani che aspettano in lunghe file acqua, cibo e medicine. Più di 300 giorni di vita al gelo e al caldo più terribile nelle tende.

Più di 300 giorni in cui Israele ha commesso i più efferati crimini contro di noi, uccidendoci senza pietà. Più di 300 giorni in cui la Corte internazionale non ci ha dato giustizia e non ha fermato lo spargimento di sangue dei nostri bambini. Più di 300 giorni di persone che cercano i loro cari sotto le macerie e per le strade. Più di 300 giorni di bambini che aspettano il ritorno dei loro padri arrestati dall’esercito israeliano senza accuse e senza processi. Più di 300 giorni di persone in attesa di viaggiare per ricevere cure mediche, più di 300 giorni di bambini morti e dei loro corpi senza testa o arti sull’asfalto, tra le macerie.

Più di 300 giorni di persone che vivono tra acque fognarie, cumuli di rifiuti e campi privi delle più elementari necessità di vita. Più di 300 giorni in cui il Nord di Gaza muore di fame, senza che gli aiuti arrivino per mesi. Il mio cuore si spezza quando la mia amica Alina dice al telefono: “Vorrei poter mangiare un mango o una banana”.

Più di 300 giorni, ormai 40 mila morti, 100 mila feriti, e la guerra non è ancora finita.

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