Riprendiamo da Il Fatto Quotidiano questa intervista all’intellettuale palestinese Suaad Genem, nella quale racconta le sofferenze patite nelle carceri israeliane. Il suo libro si intitolaIl racconto di Suaad, prigioniera palestinese ed è stato edito da Edizioni Q nel febbraio 2024.

“Nelle carceri israeliane mi hanno torturata, violentata e ustionata ”

L’attivista e giurista rievoca gli abusi, anche sessuali: “Fanno ancora così laggiù”

Prigioniera per tre volte. Suaad Genem è nata nel 1958 ad Haifa ed è stata tre volte nelle carceri israeliane. Oggi è attivista e consulente giuridico di ong. Nel libro appena uscito, Il racconto di Suaad rievoca la seconda. Nel 1983, al tempo studentessa di Giurisprudenza a Bologna, tornata ad Haifa per vedere i suoi familiari, viene arrestata dalla polizia israeliana: “Mi hanno messo un sacco in testa, e arriviamo in un posto dove scendo molti gradini”.

Suaad Genem, cosa è successo quando è sbarcata da quella nave?

Ad Haifa mi hanno strappata all’abbraccio dei miei, al porto. Mi hanno legata, un sacco in testa, poi in macchina e arriviamo in un posto dove scendo molti gradini. Mi ritrovo in una stanza piccola. Sono circondata, mi arrivavano colpi da tutte le parti, all’improvviso. ‘Confessa!’, dicono. Confessare cosa? Rispondo: ‘Ditemi voi che cosa ho fatto!’

È in sala interrogatorio che subisce abusi sessuali e minacce di stupro…

Sì.

Scrive che la umiliano con “Sei una cagna! Bevi da questa scodella per cani”. O ancora “Facciamola camminare a quattro zampe, da cagna qual è. Abbaia adesso e lecca la scodella! No, prima le infiliamo la bottiglia su per il culo”. Vuole rievocare quei momenti ?

Mentre lei parla mi sento interrogata. La stessa sensazione di allora. Ho scritto delle difficoltà a parlare di tutto questo.

Viene trasferita nel carcere di Nevé Terste. Subisce nuove vessazioni e torture e si dice sempre che è meglio la morte dell’umiliazione…

Certamente. La dignità è l’unica cosa che conta. Insistevano a chiedermi i nomi dei compagni con cui manifestai nel 1982 per il Libano (anno del massacro di Sabra e Shatila, ndr). Piuttosto che fare un nome mi sarei fatta ammazzare.

Dal libro emerge l’importanza che lei dà allo studio come strumento di resilienza.

È essenziale. Tenere viva la mente, sapere cosa accade nel mondo. In prigione prendevo i giornali israeliani dalla spazzatura, li mettevo sotto la maglietta e poi li traducevo dall’ebraico in arabo per farli circolare tra le celle camuffati da lettere di Lorenzo, il mio fidanzato italiano di allora.

Ma quando le guardie scoprono che copiavate i libri sui muri fanno sparire la libreria…

La ritorsione era attesa ed è stata dura. Le forze speciali usarono i lacrimogeni. Chiusero gli spioncini, in alto c’erano delle manichette che mi sparavano polvere addosso. Caddi a terra, non riuscivo a respirare, gli occhi bruciavano e non potevo aprirli, dalla bocca non smetteva di uscire la schiuma. Quasi non riuscivo a parlare. Io e le mie compagne di cella ci ritrovammo tutte ustionate, alcune in modo indelebile. Era gas CS lacrimogeno.

Si è rifugiata in un wc…

Sembra paradossale, lo so. Misi la testa dentro al water per ripararmi, quel poco d’aria aiutò. Ricordo che quando i miei parenti venivano in visita dovevano coprirsi il viso per l’odore dei vestiti che gli faceva bruciare gli occhi. Oggi, dopo 30 anni, devo ancora combattere con me stessa per entrare in un bagno. Una volta sono svenuta.

La protesta andò avanti ?

Decidemmo uno sciopero della fame a oltranza. Nessuna donna si tirò indietro, anche quelle che provammo a scoraggiare perché erano molto giovani. Di nuovo, fu dura, ma tra altre cose riavemmo la libreria, un diritto garantito dalla Convenzione di Ginevra. E abbiamo smesso di lavorare per le carceriere.

Cioè ?

Quando lavoravo in cucina c’era una carceriera che metteva il suo bicchiere sporco tra le nostre cose. Con l’accordo raggiunto non dovevo più lavorare per le nostre aguzzine, anche se ci provavano sempre. Capisco che possano sembrare piccole cose ora, ma non era così.

Perché racconta tutto questo ora?

Ci ho messo 30 anni per scrivere. È stato liberatorio. E condividere con gli amici attivisti il mio dolore è un gesto d’amore che spero li aiuti.

Dopo il carcere si è dottorata in Inghilterra, dove dirige una Ong per i diritti umani…

La parola chiave è perseveranza. Ho subito un trauma, ma non sono una vittima. Ho mantenuto la mia dignità.

Cisgiordania, oggi.

Un ragazzo ha ricevuto ieri lo stesso trattamento che ricevetti io 40 anni fa. Acqua gelida, poi acqua bollente, finché il corpo non è bruciato. Oggi fanno quel che hanno sempre fatto, anche di peggio. È in questo senso che il mio libro è più attuale che mai.

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