di Abdelmalek Smari, scrittore algerino.

La foto che ho sotto gli occhi me lo fa vedere un giovane dignitoso con una fronte larga e franca. Ha uno sguardo maestoso, lontano e profondo come se stesse sfidando da solo uno di quei tanti mondi che, pur essendo immensi, sono stretti e circondati da mura di ferro. Quei mondi-gabbie che schiacciano le nostre anime -pur libere- e impediscono loro di volare nei cieli della dignità. Quei mondi grandi nella loro mediocrità che ci fanno piangere piuttosto che ridere e che compiangiamo piuttosto che ce n’infastidiamo. Quei mondi che sono stati confezionati da una stoffa che si chiama menzogna per dei popoli morti capeggiati da monarchi e governanti impostori e ingannatori e perciò più morti dei morti. Quei mondi che, sommersi nella monotonia, pensano che il fuoco che li sta bruciando non è altro se non che la stessa luce di Dio. Quei tanti mondi addormentati e smarriti credendosi svegli e saggi!

La foto mi dà da pensare che Ghassan Kanafani stia sfidando quei mondi vuoti e, prendendosene delle distanze, sembra dire loro: “Statemi lontani, non siete degni di me!”

Di nome Ghassan, Kanafani nacque ad Akka nel 1936. Trascorse la sua infanzia con i suoi a Jaffa fino al 1948 quando fu costretto di lasciare la città per iniziare una vita di miseria, di erranza e di nostalgia. Una vita d’esilio, di Ghorba e di iutm  “orfanità” dello spirito.

A causa di quest’assurdità umana raddoppiata di quell’esistenziale non meno crudele, Kanafani si è trovato presto tra due mandibole ferree: il pane proibito e la libertà confiscata. Iniziò la sua vita facendo l’insegnante nelle scuole dell’Agenzia per il Soccorso dei Rifugiati Palestinesi a Damasco. Dopodiché si trasferì a Kuwait, dove lavorò come insegnante e giornalista. Nello stesso periodo (1956) iniziò la sua produzione letteraria, fra cui citiamo: “La morte del letto n°12”, “Uomini sotto il sole”, “La porta”, “Un mondo non nostro” e il famoso “Ritorno a Haifa”.

Da queste opere ho cercato di dare un’idea succinta sulle preoccupazioni di Kanafani come esempio dello scrittore lucido e impegnato, alle prese con un mondo – il modo arabo – pieno di contraddizioni, trucidato, in agonia, morto poi risuscitato poi di nuovo morto e seppellito. Questo mondo arabo che non usciva da una colonizzazione saccheggiante e distruggente che per entrare sotto il giogo di un’altra colonizzazione aggiornata e attrezzata di nuovi strumenti di distruzione e d’oppressione che spesso affliggono gli Arabi con “l’arretratezza e la paralisi”, come diceva lo stesso Kanafani.

Sembra che egli recitasse quel verso pieno di rabbia e di ribellione del suo compaesano, il Libanese, Elia Abu Madi:

Alzati e cammina sul sentiero della vita   §  Perché chi dorme la vita non lo aspetta.

Il lettore che s’intende dei problemi arabi avverte nell’opera di questo figlio della Palestina un S.O.S, un grido d’aiuto lanciato da ogni suo libro, da ogni suo racconto. Un grido prima di tutto verso i suoi concittadini, chiedendo loro di resistere rimanendo nella loro terra se vogliono veramente liberarla, poi a coloro che vogliono (fingono di) aiutarli, di non fare la resistenza al posto loro. Perché la lotta non frutta se è una lotta per procura.

Ogni sua parola è testimone di tragedie. Ci sono forse tragedie più cruenti di quelle che si abbattono sull’uomo spogliandolo dalla propria terra, proibendogli il pane, confiscandogli la memoria e la dignità davanti agli sguardi complici, impotenti o indifferenti degli abitanti della Terra?!

Kanafani morì mentre era ancora giovane nella forza dell’età (1972), e così non trovò abbastanza tempo per fare i conti con un mondo che non era mai stato il suo mondo, e non avrebbe mai potuto essere suo, per il motivo che esso appartiene a un sistema ideato dagli oppressori e imposto come destino a quelli che si compiacciono nel dormire o nell’essere morti.

Kanafani morì senza aver avuto l’occasione di vedere – lui che era sveglio e che aveva l’intelligenza perspicace e lo sguardo pertinente – la fine dell’incubo; l’incubo degli a-patridi loro malgrado, degli affamati nonostante siano ricchi, degli sprovvisti di un’identità; proprio loro che hanno contribuito generosamente alla scrittura della Storia e che, nonostante ciò, eccoli vinti, umiliati e dimenticati! E chi sono i loro aguzzini? I loro fratelli che solo fino a ieri erano vittime dell’erranza e dei pogrom e altre shoah!

Kanafani morì in martire per la libertà e la dignità, senza arrivare ai 40 anni. La sua vita era riempita di lotte nobili e di poesia. Era una vita radiosa che né il destino né i nemici riuscirono ad intorbidire.

Il lettore che conosce la lingua araba s’accorge, già dalla prima pagina di ogni suo scritto, della bellezza dello stile, della scelta delle parole adatte alle circostanze senza nessuna forzatura o avarizia e dell’onestà dello scrittore autentico.

Kanafani non risparmiava nessun’energia per venire al soccorso degli oppressi non solo in Palestina ma in ogni angolo della terra in cui sono calpestati i diritti legittimi dell’uomo, ovunque sia quest’uomo e chi che sia.

Così, il suo stile è pulito, chiaro e sobrio; non costringe il lettore a faticare troppo per attraversare i bui tunnel e i labirinti senza uscita della condizione umana che lui contemplava. Anzi egli da’ al lettore una sensazione di piacere e gli permette di meditare un mondo immenso e misterioso. Ma l’arte non è forse quest’invito tenero e piacevole alla meditazione? Il mondo dell’uomo con i suoi dolori e le sue speranze, i suoi pianti e i suoi canti, la sua felicità e la sua disgrazia, la sua aggressività e la sua fratellanza… senza nessuna cura per le contraddizioni oscillando tra la mediocrità e la grandezza fin da quando l’uomo è uomo e la Storia è Storia.

Kanafani usava delle parole semplici ma precise. E anche quando gli capitava di ricorrere a qualche arcaismo linguistico, egli lo faceva a volte apposta allo scopo di presentarci una lingua equilibrata tra la stranezza dell’uomo nel cosmo e la sua familiarità con questo cosmo.

D’altronde l’autore usava la tecnica del “flash-back” a cui ricorre spesso il cinema; nella maggior parte dei suoi racconti, lo vediamo introdurre una piccola storia raccontata al presente per poi buttarsi nel vivo dell’argomento che intendeva trattare. Questo procedimento dà, secondo me, più vita ai ricordi legandoli all’istante.

Si può pensare che Kanafani facesse parte di questo o quell’altro orientamento ideologico sclerosato del suo tempo. In realtà, Kanafani apparteneva alle proprie idee. Queste erano elastiche, palpitanti e progressive, che andavano a pari passo con il movimento della Storia. La vita stessa non è forse in evoluzione perpetua? Idee che fecero loro quell’etica del rispetto e dell’indulgenza che l’autore regalava generosamente a quella parte miserabile dell’umanità obnubilata e avida di chimere. Quell’umanità è simile a quel gattino affamato che, trovandosi sul seno morbido e caldo di un gatto maschio si crede sul seno della madre e, si mette ostinatamente a cercare un latte che non c’è. Nella sua cecità di affamato non esita a succhiare il sangue del gatto… che lo accetta per indulgenza? Per solidarietà?

La tragedia della Palestina potrebbe essere per Kanafani un pretesto per criticare la società degli uomini – qualsiasi società – che racchiude necessariamente in sé, purtroppo, più oppressione e più disgusto per la libertà dell’individuo.

Nella “Scatola di vetro” l’autore eccelle nel descrivere gli operai come una stirpe di prostitute e denuncia la loro ipocrisia e l’ignoranza che li costringono a coprirsi il viso di sudore e di falso pudore, credendo così coprire quello che commettono come reati.

Può darsi che rimangano durante tutta la vita chiusi in quella scatola, a salire o scendere i piani che la costituiscono, come schiere di formiche, senza mai osare uscirne fuori e senza mai che i loro corpi si asciughino dal sudore e le loro anime guariscano dal falso pudore.

In “Le pecore crocifisse” e “Il cobra” Kanafani cerca di combattere lo spettro della tecnologia diventata un incubo verosimile. Questo tiranno che ha asservito l’uomo e che avanza sempre, inesorabilmente, come un cobra nero e buio come la morte che ora crocifigge delle innocenti pecore, ora beve il sangue del bambino dopo averlo versato senza dissetarsi e senza essergli grato.

Kanafani amava così tanto i bambini da farci ricordare il romanziere russo Dostoievski. Per quale motivo? Perché si era stufato del mondo degli adulti corrotti, noiosi e annoiati, a forza di vivere per lungo nella mediocrità dell’abitudine e nell’ipocrisia. Questa vita futile fa sì che non possano più fuoriuscire dallo stretto universo che si erano confezionato. Se così fosse – e penso che così sia -, Kanafani, con i suoi racconti, avrebbe voluto declamare un verso che prima ancora di lui, Ben Badis, il padre spirituale dell’Algeria, salmodiava quando pregava per la libertà:

            Gioventù sei la nostra speranza   §   e con te l’alba è in vista.

Eccoli, quindi, i bambini di cui si aspetta che siano gli eroi e che investano e correggano l’adulto. Quest’adulto pieno di complessi che crede che l’infanzia sia un retaggio scomodo che debba essere seppellito sotto strati fitti e tenebrosi da cui non può più uscire!

La lettera di Messaud, in questo senso, non può essere che la preoccupazione per l’eterno ritorno di quel “terzo incomodo”, dell’infanzia. È il simbolo della stranezza e dell’estraneità dell’infanzia che irrompe nel mondo degli adulti agonizzanti nella loro mediocrità.

Adulti che, non riuscendo a ritrovare l’innocenza dei bambini, si accontentano della regressione verso i bassi istinti dell’infanzia. Adulti che non trovano, quindi, niente di più bello che esercitare la loro arroganza e la loro crudeltà per sottomettere i propri simili e umiliare le loro speranze legittime e le loro nobili ambizioni.

La dignità, ecco ciò che dovrebbe riempire la testa dura degli uomini. Dura come la roccia. Se l’uomo è contento di quello che ha – anche se ha la sola povertà, anche se ha solo le lacrime dell’ingiustizia -, quest’uomo deve considerarsi ricco e capace di vincere i mondi della mediocrità. Non importa da chi venga questa mediocrità; da un venditore di grano, da un redattore di giornale o da un amico.

Se riusciamo ad afferrare questi mondi dell’infanzia e dell’innocenza originali – per piccoli e limitati che siano – forse ci salveremo. Perché questi mondi hanno finestre che danno direttamente sui nostri cuori. Piccoli mondi, certo, ma che sfidano le nostre grandi anime. E allora vediamo i raggi dell’alba venire verso noi per pulirci dalla nostra solitudine e dalla nostra mediocrità.

Chi torna in un mondo come quello di Haifa sfollata troverà uomini che aspettano resistendo. Uomini nobili che assomigliano a dei chiodi piantati in un muro, anche se sono stati spogliati dai quadri che, una volta, li addobbavano, li abbellivano. Chiodi che possono e devono servire ancora, perché non è detto che essi non possano mai più portare quegli stessi quadri o altri nuovi.

È una bella immagine, sublime, raffinata quella che descrive i figli fedeli alla Palestina che hanno scelto di rimanere e resistere sfidando l’esilio forzato, la morte certa, l’umiliazione, la distruzione. Questi eroi non hanno ceduto al ricatto dei mitra e del fuoco come hanno fatto parecchi dei loro compaesani.

Lo stesso Kanafani, bambino, fu costretto a lasciare la Palestina. Forse era questo il motivo per cui l’autore di “Ritorno a Haifa” era scandalizzato da coloro che si erano compiaciuti nell’esilio; sarebbero dovuti rimanere per tenere compagnia ai martiri. Ecco perché i martiri non gli appartenevano. I martiri erano i fratelli di quegli eroi che non tradirono la causa e rimasero nella patria per lottare accanto ai loro per offrire la propria vita mentre sorridevano beati ed ebbri di libertà e di dignità. Khaldun, il protagonista, cresciuto da una famiglia israeliana, era a suo modo uno di questi eroi resistenti; anche se ormai faceva parte dell’esercito israeliano. Ed è con naturalezza che rispose ai suoi genitori naturali, che allora erano fuggiti senza di lui, e ora tornati dopo vent’anni d’assenza, per convincerlo di lasciare l’esercito israeliano e partire con loro in esilio: “Incapaci! Incapaci! Gli lancia in faccia. Siete legati con pesanti catene d’arretratezza e di paralisi!”

Questo è Kanafani stando alla sua foto. E questa è il suo modo di lottare e resistere.

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