di Patrizia Cecconi


Beirut 19-09-1982 – Sabra e Shatila
nella foto: alcuni dei pochi sopravvissuti al massacro israeliano nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila

Quel settembre del 1982 ero a Vienna con un amico italiano, studiavamo tedesco presso l’Istituto Austriaco di Cultura. Una delle prime cose che facemmo, come a quei tempi era normale,  fu quella di cercare associazioni culturali e politiche e scoprimmo che ce ne erano parecchie e, in perfetto stile socialdemocratico, erano più o meno tutte ospitate in un grande palazzo pubblico, ognuna aveva i suoi spazi. Lì conoscemmo diversi compagni. Allora era abbastanza normale che i giovani fossero di sinistra e che, incontrandosi, parlassero di quel che succedeva nel mondo, il mondo che ancora si pensava di cambiare.

In quei giorni si compì l’orrendo massacro di Sabra e Shatila e da quel palazzo in cui si vedevano film “impegnati”, si suonava, si faceva cucina etnica e  si parlava dei problemi del mondo, partì l’organizzazione di una manifestazione internazionale per condannare i crimini dei falangisti  cristiano maroniti del fascista Hobeikah e dell’esercito filo-israeliano di Haddad  che, con la  complicità e il sostegno israeliano del generale Amos Yaron, su indicazione di Sharon, avevano commesso la carneficina.

All’epoca il cancelliere austriaco era il socialista Bruno Kreisky il quale poneva molta attenzione al Medio Oriente e una delle critiche che, probabilmente, gli fece perdere le elezioni del 1983 fu proprio il suo atteggiamento di sostegno e di rispetto verso l’OLP cosa che,  date le sue origini ebraiche, a molti suoi connazionali sembrava inaccettabile. Invece era particolarmente encomiabile proprio per la sua capacità di cercare un percorso di giustizia prescindendo dalle origini religiose.

Si diceva che proprio grazie a Bruno Kreisky era stato  possibile organizzare una così importante manifestazione anche se, per la verità,  ci fu impedito di raggiungere sedi “sensibili” quali la compagnia di bandiera israeliana El Al su cui si era ripiegato data l’assoluta impossibilità di arrivare all’Ambasciata di Israele.

Gli organizzatori della manifestazione avevano lasciato la testa del corteo ai pacifisti “arancioni”, gli Hare Krishna, cosa per noi abbastanza strana, e lo avevano fatto  pensando che con i loro canti e i loro tamburelli avrebbero aiutato a  superare l’ostacolo e ci avrebbero permesso  di arrivare almeno davanti alla sede di El Al per gridare la nostra indignazione. Ma la tattica non funzionò e non riuscimmo a forzare il blocco,  nonostante la strada fosse sbarrata solo da pochissimi poliziotti che somigliavano più ai nostri vigili urbani che non ai nostri celerini. Niente caschi, niente scudi, niente giubbetto antiproiettile, niente armi, solo un manganello. Eppure non fu possibile avanzare.

Ricordo ancora lo stupore mio e del mio amico nel vedere che il corteo doveva sfilare ordinatamente sul marciapiede per non intralciare il traffico e che ogni tentativo di rompere quell’ordine da collegiali veniva represso semplicemente con un fischietto e quattro parole urlate. Niente a che vedere con la brutalità delle nostre cosiddette forze dell’ordine nelle manifestazioni degli anni “70, ma la cosa sconvolgente era l’obbedienza al fischietto, non solo degli austriaci ma anche degli internazionali come noi due venuti per manifestare e non per passeggiare. Non riuscimmo a rompere quell’ordine assurdo, eppure eravamo tutti pieni di rabbia e di dolore per quanto era stato commesso a Sabra e Shatila.

Sono passati ben 42 anni da allora ma alcune cose, anche marginali come quella appena descritta, sono rimaste scolpite nella mia mente insieme al malessere, ma potrei anche dire al dolore vero, che provavamo in tanti man mano che si venivano a sapere i particolari di quella terribile mattanza che noi potevamo solo condannare verbalmente e lì, a Vienna, potevamo farlo solo senza uscire dalle regole del “senso civico”.
Nella  nostra  mente si affollavano le notizie di donne sventrate, ragazzi evirati, neonati sgozzati e tutto, purtroppo, era vero e fotograficamente documentato,  non inventato come l’oscena propaganda che ancora in questi giorni i Mentana o i Polito di casa nostra raccontano dai loro pulpiti per giustificare l’ingiustificabile genocidio che Israele sta compiendo a Gaza con il sostegno degli Usa e dei suoi valletti e vassalli tra cui l’Italia. 

In quei giorni ci si chiedeva se almeno il Vaticano avesse espresso una formale condanna verso i cristiani maroniti e la loro disumana ferocia, ma che io ricordi non ci fu condanna, così come non mi pare ci fosse stata 6 anni prima, quando gli stessi cristiani maroniti  avevano dato sfogo a tutta la loro sadica crudeltà nel massacro seguito all’assedio di Tell El Zaatar, sempre nei sobborghi di Beirut. Allora, va detto per onestà, il ruolo svolto dai siriani non fu diverso da quello svolto dagli israeliani a Sabra e Shatila: impedirono l’arrivo degli aiuti e lasciarono morire di fame di sete e di malattie migliaia di palestinesi impedendo loro di uscire dal campo e, quando ci fu la resa, non impedirono la carneficina di altre migliaia di palestinesi inermi, trucidati con armi fornite da Israele, come ricordava addolorata e sdegnata la scrittrice Edith Bruck, un’ebrea che aveva conosciuto i campi di sterminio nazisti. Sparavano alle donne con i fucili ornati di Madonne, si diceva nell’agosto del 1976, e quelle che morirono così erano le più fortunate, le altre conobbero prima torture, stupri e sevizie.

Ora, nel 1982 si ripeteva qualcosa di analogo. Dopo aver esiliato tutti i combattenti garantendo loro che alle donne, ai minori, ai vecchi rimasti nel campo non sarebbe stato fatto del male, gli israeliani, che allora come ora avevano l’illusione di spegnere la resistenza e neutralizzarne i leader, lasciarono che i falangisti si accanissero contro civili inermi con una ferocia e un sadismo tali che ancora oggi, a rileggere le testimonianze del giornalista Fisk, si rabbrividisce.

Quando feci il mio primo viaggio nei campi profughi in Libano con il comitato “Per non dimenticare Sabra e Shatila” ideata da Stefano Chiarini, una penna e un cuore dedicati prevalentemente al Medio Oriente finché un infarto fermò sia il suo cuore che la sua penna a soli 57 anni, rimasi sconvolta dalla situazione in cui mi trovai immersa.  

Di Stefano Chiarini leggevo gli articoli sul Manifesto ma non feci in tempo a incontrarlo perché morì un anno prima del mio primo viaggio in Libano con il comitato che lui stesso aveva costituito. Non avevo mai visto dal vivo una situazione come quella che stavo vedendo, eppure da ragazzina avevo conosciuto le baraccopoli romane dell’acquedotto Felice dove ancora vivevano poveretti che si erano accampati lì venti anni prima dopo aver perso ogni cosa durante la seconda guerra mondiale. Andavo lì a dare una mano con altri adolescenti come me che cercavano di aiutare chi viveva in quei tuguri. Ma non c’era paragone.

Il primo campo profughi visitato in quel viaggio fu proprio quello di Shatila (Sabra non esiste più). Fuori del campo erano ammassati cumuli e cumuli di spazzatura puzzolente. Forse non era fatto scientemente, ma la percezione immediata era quella di trovarsi di fronte a un luogo in cui la dignità di chi vi risiedeva  non aveva posto. Una delle cose più sorprendenti, nonché pericolose,  era il groviglio di centinaia di fili elettrici pendenti al centro dei vicoli e a pochi centimetri di distanza da tubi idraulici, anch’essi affastellati e agganciati gli uni agli altri. Una compagna latino-americana di cui poi sarei diventata amica mi disse che neanche le bidonville brasiliane erano in quello stato.

La delegazione era guidata da Maurizio Musolino e Stefania Limiti i quali avevano proseguito sulla via segnata dal compianto Stefano Chiarini organizzando incontri con le donne, ormai anziane, sopravvissute al massacro del 1982, con associazioni che si occupano di rendere meno triste la vita nei campi, con rappresentanti politici di varie fazioni e diverse confessioni religiose, cosa che in Libano è particolarmente significativa. Scoprii che i profughi palestinesi non potevano svolgere oltre 70 mestieri e professioni e non avevano diritto alla cittadinanza perché dovevano restare giuridicamente “ospiti temporanei” e non cittadini libanesi. Scoprii che a sostenerli c’erano di fatto solo due realtà: il piccolo Partito Comunista Libanese e il Partito di Dio, cioè gli Hezbollah.  

Girando per il primo campo, Shatila, mentre si andavano a visitare alcune famiglie di profughi e alcune organizzazioni sociali, ricordo che il mio sguardo fu attirato da un muro per metà distrutto sul quale si arrampicava rigogliosa e splendida un’ipomea purpurea riuscendo a renderlo bello. In mezzo al degrado portato da una povertà e da una condizione sociale e politica che gridava vendetta a chiunque avesse un minimo di sensibilità umana, spuntava la bellezza dirompente della natura. Nel mio gruppo nessuno aveva fatto caso a quel particolare e quando lo feci notare mi sentii un po’ cretina sentendomi rispondere “ma come? qui siamo nella  pena più assoluta e tu pensi alla botanica!” Ok, accusai il colpo e tenni per me l’emozione e la meraviglia davanti a un altro rudere completamente coperto dai fiori bianchi e profumatissimi di un gelsomino. Seguitando il percorso scoprii che ogni tanto spuntavano un fico o un carrubo come se la natura dichiarasse il diritto alla vita. Lo racconto solo perché questo mi fece nascere un’idea, che però non ebbi la capacità di trasformare in progetto, quella di trasformare in bellezza una zona degradata e farne godere chi abitava nei campi. Credo che anche Stefano Chiarini avesse pensato le stesse cose quando decise che i morti trucidati dai falangisti con la complicità e l’aiuto di Sharon e del suo esercito meritassero, almeno, il rispetto di una sepoltura decorosa e non di restare in una fossa comune in uno sterrato coperto di immondizia. Così fece bonificare quello spazio che ora è un piccolo parco dove ogni anno si onora la memoria di quelle migliaia di vittime.

Il contrasto tra i campi profughi e gli alberghi di Beirut in cui alloggiavamo e i ristoranti in cui Hezbollah offriva un paio di cene alla delegazione, invitando anche le testimoni e superstiti dell’eccidio, era veramente enorme e il primo anno mi sembrò scandaloso, anche se mi spiegarono che l’omaggio che ci faceva Hezbollah era un ringraziamento per la nostra solidarietà con i profughi palestinesi.

Un altro contrasto, ma stavolta non scandaloso bensì stupefacente, era dato dal constatare che nonostante l’indescrivibile condizione dei campi, al loro interno si svolgevano  attività di livello a dir poco ottimo grazie ad alcune associazioni, in particolare Beit Atfal Assumoud fondata dopo il massacro di Tell El Zaatar e guidata da Kassem Aina che nel 1976 era stato uno dei pochi bambini miracolosamente sopravvissuti. Accanto a Kassem lavorava e tuttora lavora un folto gruppo  di signore di notevoli competenze, insegnanti, psicologhe, mediche che riescono a fare cose meravigliose con i bambini che vivono nei campi.
Forse ancor più di questo mi stupì la scoperta della scuola di musica del campo di Burj El Shemali e del gruppo di giovani suonatrici e suonatori  di cornamuse che l’associazione Ulaia diretta da Olga Ambrosanio è riuscita a far venire più volte in tour in Italia creando stupore e ammirazione per il livello professionale di questi giovani musicisti e per la bellezza loro e del loro abbigliamento. Visitare il loro campo, uno dei più disastrati, e scoprire al suo interno, tra vicoli lerci e strettissimi e costruzioni che sembrano la rappresentazione della precarietà, una vera  scuola di musica, curata, efficiente, frequentata da decine di giovani non per passatempo ma per diventare musicisti, in quel contesto è strabiliante. Miracoli palestinesi!

Tre volte sono tornata a visitare i campi profughi con l’associazione fondata da Stefano Chiarini e portata avanti da Maurizio Musolino, purtroppo anche lui prematuramente scomparso. Ogni anno le anziane superstiti mostravano in una cornice le stesse foto di giovani e di bambini, quelli che erano stati i loro fratelli, le loro sorelle, le loro madri e qualche volta i loro piccoli figli. Sempre nella stessa cornice e sempre col dolore, e spesso le lacrime, di chi sa che per quella strage non ha pagato sostanzialmente nessuno, né il generale Haddad, vendutosi a Israele, né l’ideatore del massacro, il falangista Hobeikah, né il generale israeliano Amos Yaron, quello che fece entrare i falangisti nei campi che poi illuminò con i  bengala per favorire lo sterminio e che, per il suo “encomiabile” operato venne promosso dal democratico primo ministro Ehud Barak direttore generale del ministero della difesa dello Stato di Israele. Neanche Sharon pagò, se non con formali dimissioni che poi gli aprirono la strada e successivamente divenne primo ministro, uno dei più sanguinari prima dell’arrivo di Netanyahu.

L’ultima volta che andai a Shatila, una di quelle anziane signore, se ben ricordo quella che mostrava  la foto di una giovane coppia di sposi, non restò come tutte le altre volte in doloroso silenzio ma ebbe uno sfogo di rabbia gridando che da anni si ripeteva quell’inutile pellegrinaggio, che giustizia non sarebbe mai stata fatta, che noi eravamo inutili. Poi scoppiò in singhiozzi. Avrei voluto abbracciarla e dirle che la capivo, forse anche altri avrebbero voluto farlo, ma gli organizzatori della cerimonia la richiamarono, forse la redarguirono, e lei – cosa che mi fa ancora male – si scusò con noi per quello sfogo. Pensai che forse stavo facendo turismo credendo di fare  solidarietà e fu l’ultima volta che andai in Libano.
In realtà, però, penso che il comitato per non dimenticare Sabra e Shatila faccia bene a ripetere ogni anno il viaggio di commemorazione e forse uno dei proimi anni ci tornerò anch’io. Il Libano è a pezzi, i campi profughi lo sono ancor di più e la solidarietà qualche miglioramento l’ha portato e lo si vede dalle foto che arrivano dopo i viaggi. E poi la memoria non deve andar perduta. Ricordo sempre che in una pagina del libro Memoria dello scrittore Salman Natur è  scritto: “se perderemo la memoria le iene ci sbraneranno”.  Quindi la commemorazione dell’eccidio di Sabra e Shatila è un dovere morale.
 
Chi quest’anno ha commemorato a suo modo, cioè ricordando a tutto il mondo libero e senziente la sua natura di Stato criminale, forte dell’impunità di cui gode per intrecci di interessi e corruttele con le grandi potenze e i loro asserviti enti politici e mediatici, è Israele. E lo ha fatto nel modo più infame, orrendo e criminale che potesse fare: facendo esplodere con l’alto livello tecnologico che possiede, i dispositivi elettronici di migliaia di persone in Libano e provocando morte, cecità e mutilazione per un altissimo numero di libanesi compresi molti bambini. Il fedele esercito  mediatico a servizio di Israele parla di straordinaria applicazione di altissimi livelli di tecnologia per colpire Hezbollah. Ed è vero. Però non dice che questo uso della sua tecnologia per colpire Hezbollah si configura come crimine di guerra e contro l’umanità.

Se dopo Sabra a Shatila, dopo piombo fuso, dopo colonna di nubi, dopo margine protettivo e via elencando fino alle stragi genocide attuali, se dopo tutto questo ancora non si può affermare che Israele, per l’ impunità dei suoi crimini,  è un insulto alla legalità internazionale e un pericolo per tutto il mondo, in primis perché mostra che non è il diritto bensì la forza a dettare le regole, e poi perché ci porta all’assuefazione del crimine fino a banalizzarlo, se non si è ancora capito questo e si seguita a ripetere che “Israele ha diritto a difendersi” come fosse un dogma indiscutibile, invece di affermare  che “Israele ha il dovere di rispettare la legalità internazionale” potremmo anche passare 150 giorni l’anno a commemorare le sue stragi, ma le vittime non avranno pace e i martiri, testimoni caduti nella lotta per la libertà, saranno morti invano.
Potremo pure cianciare di democrazia, ma sarà solo un termine vuoto e questo, se potessero sentirci, le vittime di Sabra e Shatila lo prenderebbero come un insulto alla loro morte da parte nostra, dopo aver subito l’insulto alla loro vita per mano libanese e israeliana. E tutti noi, chi consapevolmente, chi no, seguiteremo a nutrire un mostro che fa strame di vite e di diritti universali, quelli che ci riguardano tutti, anche quando vengono calpestati.

Patrizia Cecconi

Patrizia Cecconi

Patrizia Cecconi nasce a Roma dove consegue la laurea in Sociologia presso l’Università La Sapienza. Qui tiene per alcuni anni seminari sulla comunicazione. Successivamente vince la cattedra di Economia Aziendale, disciplina che insegnerà per circa venticinque anni. Interessata all’ambiente e alla natura, verso il 2000 rivolge la sua attenzione allo studio della botanica e della fitoterapia ponendo sempre al centro dei suoi lavori l’interazione culturale tra l’ambiente e gli umani che lo abitano. Ha curato e pubblicato articoli e libri su argomenti diversi. Il suo interesse particolare è rivolto alla Palestina. Dal 2009 fino al dicembre 2014 ha presieduto la onlus “Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese” di cui ora è presidente onoraria. E’ co-fondatrice della onlus Cultura è Libertà e dell’adv Oltre il Mare che attualmente presiede.

1 commento

  1. Umanità, storia e rigore come sempre nelle parole di Patrizia Cecconi

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