di Marina FORTI – Per gentile concessione dell’autrice e della rivista MICROMEGA. Un grazie paricolare va alla collega e amica, Marina ed alla direttrice della rivista, Cinzia Sciuto.

È un viaggio insieme personale e collettivo, quello che Bianca Pomeranzi racconta in Femministe di un unico mondo (Fandango Libri, 2024), pubblicato postumo a cura di Carla Cotti. Un viaggio attraverso il femminismo – anzi i femminismi – dell’ultimo mezzo secolo.

Personale, perché in questo libro Pomeranzi ripercorre la sua esperienza: dal collettivo femminista Pompeo Magno a Roma negli anni ’70, in un’epoca di tumultuosa crescita dei movimenti delle donne in Italia (la prima manifestazione “riprendiamoci la notte”, le battaglie contro la violenza sessuale o per eliminare il reato di aborto), ai primi contatti con una scena internazionale in cui, pur con diversi linguaggi, la voce delle donne cominciava a farsi sentire – fino al suo lavoro di esperta di politiche di genere presso il Ministero degli esteri. Già nelle prime pagine racconta quanto sia stata colpita dal clamore suscitato nel 1975 dalla prima Conferenza mondiale sulle donne convocata dalle Nazioni unite a Città del Messico, dove per la prima volta la denuncia del dominio maschile e il discorso della libertà delle donne trovavano spazio in un consesso mondiale: “Ne feci un progetto di vita, convinta che il desiderio di libertà delle donne potesse cambiare il mondo”, scrive. Progetto condiviso da molte altre donne, gruppi, movimenti, reti transnazionali che sorgevano proprio in quegli anni: in questo senso è collettivo il viaggio raccontato in questo libro.

Al centro del racconto è la dimensione mondiale dell’agire politico femminista. Bianca Pomeranzi ricostruisce come la voce delle donne si sia fatta strada, con fatica, nel sistema delle Nazioni unite per la verità piuttosto refrattario. Anche per questo la Conferenza di Città del Messico segnò un momento chiave: era il primo vero incontro tra l’Onu e il femminismo. Era anche un incontro tra attiviste di diverse regioni: infatti al Forum della società civile parteciparono seimila persone, per lo più donne, tra cui moltissime femministe dagli Stati uniti e dall’America Latina. Tra questa tribuna e il vertice ufficiale rimbalzavano le idee femministe, anche le più radicali: la conferenza aveva sollevato “il velo di silenzio sui temi della sessualità e della gestione della vita quotidiana”, osserva Pomeranzi. L’apparizione del “soggetto imprevisto”, scrive con un richiamo esplicito a Carla Lonzi e al suo Manifesto di rivolta femminile, aveva cambiato i termini del discorso, provocando “un salto epistemologico in molte aree del mondo”.

Era emerso ovviamente anche un campo di conflitti tra donne: tra chi aveva più o meno potere di parola (il Forum a Città del Messico era stato organizzato da referenti di Stati uniti e Canada, e molte denunciarono un certo “imperialismo culturale”). Tra il femminismo statunitense rappresentato da Betty Friedan che reclamava piena cittadinanza per le donne – e quello rappresentato dalla boliviana Domitila de Jungara che reclamava giustizia sociale. Tra diverse priorità: i diritti riproduttivi e sessuali o l’accesso a strutture sanitarie; i diritti politici o quelli sociali. La lotta alla povertà come volevano le economiste e esperte di sviluppo (per lo più occidentali) o la lotta all’imperialismo su cui insistevano le delegazioni dei paesi socialisti.

Il confronto è proseguito nelle conferenze e nei forum che hanno scandito il “decennio delle donne” proclamato dall’Onu (1976-’85). Il lavoro di sponda tra l’Onu, le delegazioni dei governi e i movimenti delle donne ha infine prodotto la Convenzione sull’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne (Cedaw), prima e unica convenzione internazionale sui diritti delle donne, approvata nel 1979 ed entrata in vigore nel 1981.

Allo stesso tempo, nei forum la partecipazione di donne diventava sempre più ampia e globale: e “la presenza delle donne del Sud del mondo moltiplicava i punti di vista in tema di sessualità e dispositivi patriarcali”, osserva Pomeranzi. Ci sono stati momenti aspri: come quando, durante la Conferenza “di mezzo termine” del decennio Onu delle donne nel 1980, a Copenhagen, molte attiviste africane accolsero con insofferenza la campagna per abolire le mutilazioni genitali femminili sostenuta dal femminismo statunitense, che vedevano come un’altra manifestazione di imperialismo culturale. Tra le altre, fu molto critica l’egiziana Nawal al Sa’dawi, che pure aveva ampiamente denunciato le mutilazioni sessuali subite dalle bambine dei villaggi del delta del Nilo dove lavorava come medico. Visto dall’Italia, osserva Pomeranzi, era ovvio condividere la postura anti-patriarcale delle femministe radicali americane. Ma era anche chiaro che le attiviste di altre regioni “volevano stabilire le proprie priorità d’azione politica”, senza dover sottostare a modelli occidentali. Le attiviste del Sud del mondo portavano il racconto di situazioni concrete legate al perpetuarsi del colonialismo e del razzismo – ma la coscienza del neocolonialismo e delle identità “razzializzate” non era ancora molto diffusa, negli Usa e nella vecchia Europa. Insomma: anche la “sorellanza” veniva decostruita.

In quei forum però sono nate relazioni che hanno contribuito a dare voce globale ai movimenti delle donne – e a costruire linguaggi di solidarietà tra donne. Nel racconto di Bianca Pomeranzi ritroviamo economiste indiane come Devaki Jain e Gita Sen, l’attivista keniota Wangari Maathai; la latinoamericana Virginia Vargas, e molte altre che poi fonderanno reti transnazionali. Sono nati forum regionali. A Nairobi, alla Conferenza che nel 1985 concluse il decennio Onu della donna, erano emersi movimenti popolari animati da donne come il Chipko in India, o il Green Belt in Kenya. C’erano i campi femministi per la pace a Greenham Common (nel Regno unito) e a Comiso. C’erano le attiviste e ricercatrici di Dawn (Development Alternatives with Women for a New era, acronimo che forma la parola “alba”), e molte altre.

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO INTERO DI MARINA FORTI, CLICCA QUI.

Marina Forti, Giornalista, dirige la Scuola di Giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Ha lavorato a Radio Popolare ed a il manifesto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *