Intervista alla giornalista di Al Jazeera Yumna El Sayed-
di Riccardo Antoniucci sul Il Fatto Quotidiano del 5.10.24
“L’Occidente ha rinunciato a fare giornalismo a Gaza”
“Vietare l’accesso dei reporter alla Striscia viola la libertà di stampa: vi siete arresi”
Come gli eschimesi con la neve. I gazawi hanno imparato a non chiamare “guerra” ogni bomba sganciata sul loro cielo. “Distinguiamo tra diversi gradi di conflitto, anche per non dire ai nostri figli che c’è una guerra ogni mese. Quella di oggi a Gaza è un’escalation militare”, spiega Youmna El Sayed. La giornalista palestinese, corrispondente tra le più note di Al Jazeera, ha lavorato nella Striscia fino a dicembre, prima di riparare con la famiglia in Egitto, è in Italia per il Festival di Internazionale di Ferrara. Ha portato sul palco la sua testimonianza diretta della guerra lanciata da Israele dopo il massacro del 7 ottobre, e ha consegnato anche un messaggio a i giornalisti: “Lottate di più per entrare a Gaza e se non riuscite andate a Gerusalemme est e nei Territori occupati. Non lasciate che sia qualcun altro a raccontarvi questa storia”.
Per quanto ha lavorato come giornalista a Gaza?
Da 17 anni. Ho seguito l’assedio israeliano in tutte le sue implicazioni. Nell’ultima offensiva militare il mio quartiere è stato bombardato il terzo giorno: ho visto le bombe cadere dalla finestra della redazione.
Anche lei ha dovuto evacuare?
Sei volte. A ottobre, abbiamo seguito il primo ordine di evacuazione emesso dalle Idf, ma poco dopo siamo tornati a Gaza City perché al sud non c’era acqua e vivevamo in sei in una stanza. Ho continuato a lavorare sotto le bombe. A novembre, mio marito ha ricevuto la telefonata di un ufficiale israeliano che ci intimava di fuggire: ‘Sappiamo chi siete’. Siamo rimasti, due giorni dopo hanno sparato sulle nostre finestre. Una voce al megafono ci ha dato cinque minuti per uscire: siamo corsi giù senza prendere nulla, ricordo che non trovavo il gatto di mia figlia. Per sfollare a sud, sulla strada di Salad al-Din bisognava camminare con le braccia alzate, straccio bianco in una mano e documento nell’altra. Ho visto i cadaveri sul ciglio della strada, i carri armati, i cecchini. Siamo finiti a Wadi Gaza, ho ritrovato i colleghi, poi a dicembre siamo andati in Egitto.
Quanto è difficile da giornalista raccontare tragedie che la toccano direttamente?
Ancora più difficile ora. A Gaza sei abituato a essere sotto assedio e la scritta press è un bersaglio sulla schiena. Ma stavolta ogni singolo abitante di Gaza è un obiettivo, solo perché palestinese.
I media internazionali non hanno accesso a Gaza e alcuni ritengono i giornalisti palestinesi non affidabili. Lei come risponde?
Il divieto di accesso alla Striscia per i giornalisti stranieri è una limitazione della libertà di stampa imposta da Israele a cui media occidentali si sono arresi. Non hanno combattuto per il diritto a essere testimoni diretti del genocidio, come in altre occasioni. Hanno dismesso il compito di informare e si sono limitati a ‘venire informati’. Quanto all’affidabilità, ogni volta che un giornalista occidentale è stato a Gaza o in Cisgiordania si è affidato a un fixer e a un traduttore palestinese, ha parlato con le autorità locali e intervistato gli abitanti. Ora, noi diamo voce alle stesse persone e ci considerano inattendibili. È razzismo.
Israele accusa la sua testata di sostenere Hamas, hanno chiuso le vostre redazioni…
Al Jazeera è l’unico canale che ha continuato a coprire il genocidio dal primo giorno. Ho raccontato personalmente l’attacco del 7 ottobre da Gaza parlando di “attacco palestinese contro insediamenti israeliani”. Non vi sembra obiettivo? Abbiamo descritto ogni aspetto di quella giornata e poi abbiamo seguito le manifestazioni dei familiari degli ostaggi israeliani.
Da Gaza, avevate previsto quello che che stava per succedere? Avete visto le esercitazioni delle milizie palestinesi?
Certo, Hamas e le altre fazioni palestinesi ci avevano mandato un invito stampa. Lo sapevamo noi, figuriamoci Israele che ha costantemente droni in volo sopra la Striscia. Bisogna ancora indagare a fondo su come sia stato possibile il 7 ottobre.
Che intende?
Chiunque sia stato a Gaza sa bene che né Hamas, né nessun’altra fazione avrebbe mai potuto superare quel muro così facilmente. In 20 anni di giornalismo, non ho mai visto il ‘border’ sguarnito. L’attacco del 7 ottobre è cominciato alle 6 e la prima risposta è arrivata alle 10 e 30. È emerso che il Mossad sapeva dei piani di attacco con i parapendio. Penso che prima o poi avremo le prove del fatto che il 7 ottobre è stato lasciato accadere, per diventare la giustificazione perfetta del genocidio.