Sulla strada della costa, un cammino di 17 chilometri per ritrovare le macerie di casa propria. Ieri rientrati in 300 mila
Il sogno di tornare a nord alla fine si sta avverando. Ieri mattina ci è stato dato il permesso di attraversare i check-point del corridoio Netzarim e tornare nel nord della Striscia, dove molti di noi hanno lasciato le loro case un anno e mezzo fa. Da sud fino a Gaza City il viaggio è lungo circa 17 km.
Ieri mi hanno svegliato le grida: erano le cinque di mattina, ho sentito le voci degli zii che dicevano che era ora di partire, che dovevamo metterci in marcia. Abbiamo preso la strada di Al-Rashid, lungo la costa, quella dove si può camminare a piedi. Siamo entrati in una coda infinita. Dicono che siamo in 300 mila. Ho visto accanto a me una donna con un sacco in una mano e la figlia in braccio. Un’altra spingeva una sedia a rotelle con sopra la madre. In mezzo a noi correvano i bambini, ignari di quello che stavano facendo. Molti adulti, invece, marciavano e piangevano. Qualcuno mi passa dell’acqua, a qualcuno passo del pane.
Tornare indietro è bellissimo, anche se non ci aiuta nessuno. Non abbiamo visto nessuna istituzione, nessuno di quelli che avevano promesso autobus gratis per gli sfollati e cure mediche per chi ne avesse avuto bisogno. Avevano detto che ci avrebbero accompagnato nel cammino: non si è visto nessuno, ieri.
Ma la gente intorno a me non ci pensa: sono tutti troppo presi dalla marcia. Camminano per restare vivi, non hanno tempo per il resto. Ho visto i post degli attivisti sui social network, video e foto nelle stories per documentare il viaggio di tanti di noi, raccontando tutto il dolore che la gente si porta dietro. Ho cercato le storie di tutti i miei amici: camminavamo sulla stessa strada, più avanti o più indietro di me. Ho visto qualcuno arrivare sulle macerie di casa sua e piangere. Qualcuno invece si è messo a cantare. Altri non sono mai arrivati, perché non sono riusciti a spostare qualche familiare o i figli.
I civili di Gaza come me, hanno aspettato questo momento per più di 460 giorni. Un tempo durante il quale ci eravamo convinti che non saremmo mai più tornati a casa, che il nostro destino era di rimanere sfollati per sempre. E invece, da ieri, i sogni di tutti sono cominciati a diventare realtà.
Lungo la strada ho visto i resti delle tende che abbiamo usato, dei bagagli che eravamo riusciti a portarci dietro durante i numerosi spostamenti. Per arrivare a Gaza sono più di 17 km a piedi: ti porti solo un sacchetto di cose, non di più. Ogni due passi c’è qualcuno che fa un video o una foto, ma nessuno che ti aiuti ad andare avanti.
I media palestinesi hanno provato a dipingere questa nostra marcia come una vittoria. Hanno ripreso e mandato in onda scene di giubilo, ma non ho visto nessuna clip di quell’anziano che si teneva le ginocchia ansimando perché non ce la faceva più a camminare, e voleva un goccio d’acqua. I media hanno provato a mostrare al mondo il nostro contegno dignitoso per i morti, ma che vittoria è mai questa, se camminiamo sulle macerie di casa nostra?
Prima del 7 ottobre non avevano alcun bisogno di questi racconti dei corrispondenti tv. Non ci serviva tornare a casa perché stavamo già a casa nostra, con la nostra dignità intatta. Non morivamo di fame e non eravamo sfollati. Vivevamo con le nostre piccole cose e non ci servivano scene di vittoria alla tv. Adesso stiamo tornando a casa, a nord. Prima o poi ci renderemo conto che stiamo tornando su delle macerie.
La gente non dimenticherà. Niente potrà mai togliere dalla memoria queste scene: di giubilo, certo, ma anche di tristezza, di umiliazione, di oppressione e di solitudine.