Intervista. Incontro con lo scrittore libanese, da anni residente in Francia, che dai libretti d’opera al romanzo «I nostri fratelli inattesi» lavora a una ideale rielaborazione del concetto di «alterità»
di Vermondo Brugnatelli
I romanzi di Amin Maalouf spaziano in terre lontane sebbene la sua vita si limiti a oscillare tra i libri del suo studio a Parigi e la solitudine contemplativa della piccola isola d’Yeu, nel golfo di Guascogna. Lasciò il Libano l’anno seguente lo scoppio della guerra civile del 1975, approdando in Francia, dove da allora risiede e dove ha lavorato anche come giornalista, per «Jeune Afrique». Lì ha scritto il suo primo libro, Le crociate viste dagli arabi, pubblicato nel 1983, poi il primo romanzo, Leone Africano, nel 1986, e da quel momento si è dedicato alla scrittura, anche di libretti d’opera. La nostra conversazione, avvenuta a Milano, comincia proprio da questo aspetto della produzione di Maalouf, meno noto, ma a lui caro.
Come è nata in lei questa vena di librettista d’opera?
In un modo totalmente imprevisto. Nel 1998, ricevetti una lettera dal festival di Salisburgo: il direttore era Gerard Mortier, e progettava di produrre un’opera affidata, per la parte musicale, alla compositrice finlandese Kaija Saariaho, e a me per la scrittura del libretto. L’idea mi piaceva, così risposi subito di sì, e si rivelò una bellissima esperienza. L’opera, L’amour de loin (L’amore da lontano) è basata sulla vita di un trovatore del dodicesimo secolo, Jaufré Rudel, che passò tutta la vita a cantare l’amore a distanza per una nobildonna mai incontrata. L’opera fu poi rappresentata in una ventina di paesi, e con la stessa musicista ne ho composte altre tre.
A suo tempo la storia di Rudel e la contessa di Tripoli ispirò diversi poeti italiani, da Petrarca a Carducci. Lei non si può definire un poeta, ma la scrittura di un libretto esige il rispetto di molteplici vincoli formali, e da questo punto di vista è vicina al comporre poesie…
È vero, non ho mai composto poesie, e in questo caso ho dovuto tenere conto dei vincoli di un melodramma, delle diverse versioni di una tradizione, e naturalmente degli strumenti: non è tutto teatro, non è tutta poesia, ma ha che fare con ambedue. Mio padre era un poeta, sono cresciuto in una casa che ha spesso ospitato dei poeti, leggo e frequento poeti di lingua araba, francese e di altre lingue, ma mi sono sempre sentito più portato a raccontare, e anche questo mio libretto ne risente.
Passiamo ai romanzi: l’ultimo, «I nostri fratelli inattesi», sembra avere precorso l’attualità della pandemia, ma in realtà ha cominciato a scriverlo prima ancora che cominciasse. E l’isola nella quale si svolge rimanda alla Yeu, nella quale lei ama ritirarsi.
Sì, quando sono lì, amo fantasticare sui popoli che vivono sul mare in angoli remoti del pianeta, immaginandomi storie che somigliano molto a quella del libro. Lo cominciai a costruire anni fa, di tanto in tanto, finché un giorno, nell’estate del 2019, l’ho tirato fuori da un cassetto, l’ho mandato al mio editore, che ritenne opportuno attendere un po’ per la pubblicazione perché era appena uscito Il naufragio delle civiltà. Pochi mesi dopo, però, arrivò il Covid e i parallelismi che trovò nel libro gli fecero rapidamente cambiare idea. Nel romanzo torno su una questione che mi ha sempre appassionato, e cioè cosa succederebbe se la nostra civiltà, fiera dei suoi progressi, incontrasse un giorno un’altra civiltà molto più avanzata, oppure se una grande potenza arrivasse da sola rapidamente a un grado di sviluppo molto superiore a quello delle altre rendendole di colpo obsolete. È una domanda che al giorno d’oggi, con i progressi in campi come l’intelligenza artificiale, non è più solo teorica. Che tipo di relazioni si instaurerebbero? Ci troveremmo nella situazione degli Aztechi di fronte agli Spagnoli.
Lei immagina una società in cui tutti vivono in armonia, avendo come obiettivo il bene dell’umanità, governata da una potenza superiore benefica. Pur con tutte le differenze, viene da pensare alla massoneria del passato, quella cui apparteneva un suo antenato idealista, la cui attività lei disse di avere scoperto nelle ricerche genealogiche di «Origini».
Il caso del mio nonno paterno non era isolato: a cavallo tra Otto e Novecento in molte parti dell’Impero Ottomano erano forti le correnti progressiste che aspiravano alla democrazia e all’emancipazione dei popoli. Quanto alla comunità descritta nel libro, avrei potuto immaginarla in diversi modi, per esempio ricorrendo a un benefattore venuto da un altro pianeta, ma avrebbe comportato un deus ex machina che non mi è congeniale. L’idea mi è venuta contemplando il mare. Ho ipotizzando l’esistenza di zone del mondo che per la loro marginalità non siano mai state completamente sotto il controllo di stati o altre forme di potere, e ho dunque immaginato una popolazione che si è preservata, rimanendosene in disparte e seguendo un’altra via intellettuale e morale da quelle a noi note. Quelli che chiamo i fratelli inattesi hanno mantenuto la fiamma di una civiltà antica e vengono a dirci che siamo sulla strada sbagliata. Nell’idea di questo popolo venuto dal mare c’è anche un po’ l’influenza del mito di Atlantide, un mito dell’antica Grecia, elaborato durante il cosiddetto «miracolo ateniese», in cui sbocciano, quasi d’incanto e già ad un livello di eccellenza, la commedia, la tragedia, la scultura, la filosofia, la storiografia.
Nel mondo arabo dal quale lei proviene c’è una divaricazione tra lingua parlata e lingua scritta, che forse influisce anche sul mercato: immagino che un libro in lingua europea venda molto più di uno scritto in arabo.
È vero, anche senza considerare i problemi politici, che hanno evidentemente un grande peso, restano quelli economici e relativi ai circuiti di distribuzione: un libro pubblicato in Libano o in Iraq non sempre sarà distribuito anche altrove, perché non esiste un solo grande mercato del libro arabo. C’è anche, da considerare, la questione relativa alle abitudini di lettura: un libro uscito nel mashreq ha qualche probabilità di essere letto da un intellettuale marocchino, algerino o tunisino, mentre è più raro che un libro arabo scritto nel maghreb venga letto anche nel levante. Per quanto mi riguarda, da quando sono venuto a vivere in Francia scrivo soprattutto in francese, ma nei primi tempi ho lavorato con entrambe le lingue: quando scrivevo su «Jeune Afrique», allo stesso tempo collaboravo per dei giornali di lingua araba che erano venduti a Parigi, ma poco alla volta mi sono sempre più orientato verso la stampa francese.
Cosa pensa delle traduzioni dei suoi libri in arabo? Non ha mai pensato di tradurli lei?
Avrei potuto ma non l’ho fatto. Un amico che aveva un giornale, mi chiese anni fa se potessi tradurre, capitolo per capitolo, Le crociate viste dagli arabi, che lui avrebbe poi pubblicato a puntate settimanali. Sul momento l’idea mi parve molto buona, ma poi mi resi conto che via via stavo scrivendo un altro libro e abbandonai l’impresa. Ho avuto la fortuna di avere degli eccellenti traduttori: Afif Dimachkia e Nahla Baydoun hanno fatto un lavoro tale per cui le persone che hanno letto il testo in arabo dei miei primi libri mi dicevano che non si percepiva affatto che fossero frutto di traduzione: si aveva l’impressione che fossero stati scritti direttamente in arabo. Sento dunque di essere presente in lingua araba meglio di come lo sarei stato se mi fossi messo io stesso a tradurmi.
Le sue prime letture di autori occidentali avvennero, da ragazzo, attraverso traduzioni in arabo?
Sì, attraverso una collana pubblicata al Cairo, che si chiamava Awladuna (I nostri figli), ed era pubblicata da Kamil Kilani, un pioniere della letteratura araba per l’infanzia. Avrò avuto nove o dieci anni quando mi affascinavano libri come Il Principe e il povero di Mark Twain o Il prigioniero di Zenda di Anthony Hope. In questa collana c’erano 13 titoli, e io ero angosciato all’idea che dopo non ce ne sarebbero stati più. Quando si esaurì per me fu una vera perdita.
Durante la nahda, il «rinascimento arabo», a cavallo tra Otto e Novecento, furono molte le traduzioni in arabo ad opera in particolare di autori libanesi, e fra queste fu significativa quella di Omero. Il suo contatto con la cultura greca ha avuto luogo attraverso quelle traduzioni o è avvenuto direttamente nelle lingue occidentali?
Devo confessare che quanto io so della civiltà greca mi è giunto soprattutto attraverso i miei studi in francese. Certamente, le traduzioni in arabo che lei ricorda hanno fatto epoca. Nel 1904, al parlamento ottomano, un deputato greco si alzò a ringraziare pubblicamente il suo collega del Monte Libano, il politico e letterato Suleyman al-Boustani, che aveva appena terminato di tradurre in arabo l’Iliade. L’ho sempre considerato un gesto di grande civiltà.
Articolo pubblicato su gentile concessione de il manifesto:
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